Un capolavoro d'autore

di Daniele Di Grazia

Francesco De Gregori è tornato e lo ha fatto nel migliore dei modi, con un album bello dalla prima all’ultima canzone, dove il problema sta nel trovare una canzone che non meriti almeno un dieci, dove a volere trovare il pelo nell’uovo, la peggior critica che puoi fare, è che se la sua vena creativa è a questo livelli, avremmo preferito avere un disco con almeno altre dieci venti o trenta canzoni.

Si apre con “Vai in Africa, Celestino”, un bel rock, apparentemente leggero, ma che dopo il primo ascolto affascina e rimane in testa a risuonare.

Davvero una bella canzone, che forse manca di qualche assolo che il bravo Paolo Giovenchi avrebbe potuto inserire tra un verso e l’altro.

Gambadilegno a Parigi” è un capolavoro, dove il personaggio non ha nulla di disneyano, è una di quelle canzoni che ti lasciano a bocca aperta e se non fosse per le chitarre sferzanti di “Tempo reale” che ti riportano sulla terra, rimarresti li a riascoltarla per ore.

Già “Tempo reale”, una canzone che dipinge un quadro tragico e spietatamente reale del nostro bel paese, dove se rubi non muore nessuno, dove ci si nasconde dietro ai luoghi comuni, dove schierarsi da una parte o dall’altra dipende solo da quanto ti pagano.

Parole a memoria”, fortemente ispirata dal faro “Dylan” è un classico del repertorio di Francesco, che introduce la bellissima “La testa nel secchio”, che tra echi di Mark Knopfler e preziosismi tipicamente “degregoriani” ci porta tra le mani i ricordi personali del cantautore e per un attimo ci induce a pensare che il disco possa ritornare sui binari classici del cantautore romano, ma nulla di più sbagliato, “Il panorama di Betlemme” ci consegna un De Gregori rock come non mai. La sua voce è spettacolare, coinvolgente, viene voglia di battere i piedi e di cantare a squarciagola.

Francesco prima della pubblicazione del disco aveva detto che “Pezzi” avrebbe suonato proprio come se fosse un disco dal vivo, nulla di più vero.

Il penultimo pezzo “Le lacrime di Nemo”, invece non può non farci pensare a Giovanna Marini. La canzone sembra infatti essere uscita dal “Il fischio del vapore” e sarebbe interessante poterla sentire cantare proprio dalla voce della Marini.

Il disco si chiude con un titolo “Il vestito del violinista”, che a molti potrebbe far pensare alla classica canzone di chiusura degli album di Francesco, un po’ come successe con “Rumore di niente” o “Sempre e per sempre” ed invece di violini non c’è neanche l’ombra. Si tratta di un pezzo duro, spietato che ti lascia con l’amaro in bocca e che non può non farti pensare alle immagini tanto orrende quanto reale degli ultimi anni.

I bambini citati nel testo sono quelli della strage di Beslan, ma potrebbero anche essere i bambini che ogni giorno muoiono in Africa, ma che non fanno audience in televisione e che per questo motivo sono meno tragici degli altri. La canzone ti lascia l’amaro in bocca e le chitarre che suonano con durezza non fanno altro che accentuare questo sentimento.

Di dischi come questi ce ne vorrebbero ogni giorno, Francesco ha la stessa vena creativa che avevamo lasciato in “Canzoni d’amore”. 

Chi credeva che De Gregori non avesse più nulla di dire dovrà ricredersi, magari non lo ammetterà mai, ma non potrà non chiedersi come fa quest’uomo di quasi 54 anni a scrivere ancora canzoni memorabili, come fa quest’uomo a tenere il palco con una forma straordinaria, meglio di come faceva nei primi anni della sua carriera.

Francesco si diverte a suonare e noi ci divertiamo ad ascoltarlo.

Speriamo che non si stanchi mai, perché quel giorno la musica italiana avrà perso il suo migliore “pezzo”.

Daniele Di Grazia

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