RADIORAI1

HOBO

11 marzo 2003

con

Massimo Cotto

 

 

 

 

COTTO: Avresti parlato lo stesso con noi se Roma-Lazio non fosse finita cinque a uno?

DE GREGORI: Avrei parlato lo stesso, ma sono più contento adesso. Dirò delle cose più intelligenti.

COTTO: Una volta hai detto: “Io scrivo canzoni come un calzolaio fabbrica scarpe”. Sei d'accordo quindi con Fossati, che sostiene che la parola “artista” andrebbe sostituita dalla parola “artigiano” per dare l'idea del lavoro che sta dietro alla scrittura di un brano?

DE GREGORI: Beh, la canzone è come un paio di scarpe. E' unica e irripetibile, non è fatta in serie. Un calzolaio fa un paio di scarpe per volta, e in questo senso fare il musicista è un lavoro artigianale, anche se l'immagine è un po' pittoresca. E' un lavoro che si fa quando hai voglia e con gli strumenti che hai a disposizione al momento.

COTTO: Ci hanno insegnato che le risposte dovrebbero essere cercate nella filosofia e nella storia e che in realtà il compito dell'artista è spesso anche quello di fare domande. Oggi però si chiede ai cantautori di diventare dei maestri di pensiero. Ciò accade perché non funziona più la filosofia o perché funziona troppo la musica?

DE GREGORI: Dio mio, questa è un'intervista serissima. Speravo in qualcosa di più frivolo...In realtà nessuno mi ha mai chiesto di diventare un maestro. Siamo tutti maestri di pensiero quando usciamo per strada e comunichiamo il nostro pensiero ad altre persone. E' chiaro: la canzone racconta delle storie, quindi può essere considerata un insegnamento tanto quanto un messaggio pubblicitario, un film o un libro. Non dico questo per sminuire il ruolo della canzone, ma per cercare di evitare che qualcuno vi cerchi troppi significati. Quando ho scritto “Dr. Dobermann” non ho cercato di insegnare qualcosa a qualcuno, ho soltanto raccontato delle storie, nemmeno molto chiare, che avevo nella testa. Chissà chi è questo Dr. Dobermann... secondo voi chi è?

A mio parere gli unici che devono insegnare qualcosa sono i docenti che stanno dietro una cattedra e hanno la responsabilità di educare le giovani menti e insegnargli Dante. Le canzoni vanno bene durante la ricreazione.

COTTO: Tu spesso sostituisci un “e” al posto di un “ma”. Ad esempio, in “Il cuoco di Salò” dici: “e qui si fa l'Italia e si muore”, anziché ripetere il motto “qui o si fa l'Italia o si muore”, mentre nel titolo di un tuo album rovesci il modo di dire “Prendere o lasciare” in “Prendere e lasciare”. E' soltanto un modo di giocare con le parole?

DE GREGORI: Sono solo titoli di canzoni. Anche se sicuramente c'è una bella differenza tra dire “Prendere o lasciare” e “Prendere e lasciare”

COTTO: Te lo domando perché solitamente all'artista si chiede di illuminare quelle parti che normalmente gli altri non vedono.

DE GREGORI: Io non illumino niente, solitamente sono io ad essere illuminato con le luci che ci sono sul palco. L'artista viene illuminato, ma non illumina nessuno. Il massimo che l'artista possa desiderare è di essere pagato... e spesso succede che non lo facciano.

COTTO: In “Il bandito e il campione” si parla anche di tradimento. Sei mai stato tradito da qualcuno o da qualcosa?

DE GREGORI: Non in modo irreparabile. I tradimenti fanno parte della vita e delle nostre stanze. Di sicuro la canzone parla del tradimento di un'amicizia, ma non posso parlare di una canzone che non ho scritto io, bensì mio fratello, Luigi Grechi. E questo mi mette a disagio. Il brano narra la storia di un ciclista famoso, Costante Girardengo, che ad un certo punto pare (è meglio usare la forma dubitativa sennò mi fanno causa) abbia dato una soffiata alla polizia per favorire l'arresto di Sante Pollastri, che al tempo era un bandito famoso. La canzone però è romanzata, e il fatto giudiziario passa sicuramente in secondo luogo. Sicuramente è una storia sul tradimento, ma ai tradimenti bisogna sopravvivere.

COTTO: Spesso, durante i tuoi concerti, dai l'impressione che ti infastidisca che il pubblico canti in coro. Anche questa è una eredità dylaniana? Dylan cambiava il fraseggio per evitare l'effetto karaoke.

DE GREGORI: No, non mi dà alcun fastidio se la gente canta in coro. Se cambio le canzoni non è per impedire al pubblico di seguirmi; ma è normale che una canzone, dopo tanti anni, cambi forma rispetto a quando l'ho scritta e registrata. Io non riesco più ad ascoltare i miei dischi, e non vado mai a risentirli. E' chiaro: una canzone cambia, è uno dei suoi grandi privilegi. Il quadro di un pittore, una volta completato, non può più essere modificato, ma chi scrive canzoni può cambiarle. Si possono cambiare gli accordi, le parole, aggiungerne, toglierne e soprattutto si può modificare il cantato. Io non ho più la stessa voce di quando ho scritto “Alice” ed evidentemente sarebbe un falso, un plagio di me stesso, cantarla oggi come lo facevo allora. Spesso alla radio la passano: ma quel brano non è più mio. E mi va benissimo che il pubblico mi faccia il coro.

COTTO: ”Alice" e "Niente da capire" sono due brani che hanno subito alcune censure. Purtroppo noi della RAI avevamo stabilito che il brano "Alice", con la frase "un mendicante arabo ha un cancro nel cappello" non potesse passare per radio attorno all'ora di pranzo; e ti abbiamo anche chiesto di sostituire, in “Niente da capire” la frase “faceva dei giochetti da impazzire”. Hai subito altre forme di censura dirette o meno?

DE GREGORI: Le censure che hai citato sono sufficienti ad illuminare l'idiozia dei censori. Non c'è nessun motivo per cui si debba censurare la parola “cancro” o la parola “giochetti”. Sono cose che fanno parte della vita quotidiana. A quei tempi qualcuno ha pensato che fosse disdicevole usare certi termini.

COTTO: Personalmente ho trovato molto strano che le radio americane, dopo l'11 settembre, censurassero alcuni brani perché giudicati non adatti.

DE GREGORI: Ma sai, gli americani sono strani. Bisognerebbe vedere se è realmente così... io non mi fido di quello che dicono i giornalisti.

COTTO: E' vero che la prima canzone che hai imparato a suonare con la chitarra è stata “Il ragazzo della Via Gluck”, quando avevi quindici anni?

DE GREGORI: E' abbastanza vero.

COTTO: Come “abbastanza” vero?

DE GREGORI: Ora non ricordo esattamente, ma quella canzone è stata la mia prima hit.

COTTO: Sei felice del ritorno all'attività di Enzo Jannacci, dopo le difficoltà che ha avuto per trovare una casa discografica?

DE GREGORI: Per me Jannacci non è mai andato via, e quindi non è mai tornato. Jannacci è una presenza, e non riesco a vederlo prigioniero di un disco o di una casa discografica.

COTTO: Se tu dovessi parlare ad una donna o ad una persona con una canzone, quale sceglieresti?

DE GREGORI: Ci mancherebbe solo che parlassi con le canzoni. Io parlo normalmente con la lingua italiana, dico: “Ciao, come stai?”, le solite cose.

COTTO: Ti faccio l'unica domanda che mi hai chiesto di non farti. Ti senti un poeta?

DE GREGORI: Ognuno è responsabile delle domande che fa. Si sono fatte tante chiacchiere sul rapporto canzone-poesia. E' solo un mestiere diverso. Credo che fare il mio mestiere sia più difficile che fare il poeta. Io devo fare i conti anche con la musica, un poeta invece è libero e non deve incastrare i suoi versi dentro una ritmica. Poi ci sono belle canzoni e brutte poesie, e brutte canzoni e belle poesie: ma sono mestieri diversi.

COTTO: Se la televisione fosse diversa la frequenteresti di più, o pensi che il compito de musicista sia anche quello di rimanere un po' fuori dal mondo per poter giudicare e vedere meglio?

DE GREGORI: La televisione non è l'ombelico del mondo, per un musicista. E' una cosa che sta lì e può capitare di andarci. E' come andare a Vigevano: un giorno decidi di andarci, un altro no. Trovo che sia una stortura il dover collegare il mondo della musica a quello della televisione. Il musicista deve stare sul palco e la televisione può esserne la fotografia. Sarà il musicista a scegliere il fotografo che preferisce; e sinceramente non ce ne sono molti di bravi, attualmente.

COTTO: Nelle tue canzoni hai cantato spesso il disagio, la diversità e il senso di non appartenenza. Ciò è un tratto comune a chi scrive?

DE GREGORI: Sai, capita che un solo giorno, una sola ora di quel dato giorno di un anno, ci sentiamo soli, diseredati e tristi come Oliver Twist. Quel momento lo devi prendere al volo e farne una canzone. Pensi che quando si è allegri non si scrive canzoni o, come diceva Bruno Lauzi, chi fa l'amore non ha mai la chitarra in mano? Sto scherzando. Io racconto quello che succede a me e intorno a me. Ci sono sicuramente canzoni che esprimono questo tipo di sofferenza, ma ci sono anche moltissimi romanzi e film. Forse servirebbe un grandissimo poeta per raccontare la serenità. E' sicuramente più facile parlare dei giorni storti.

COTTO: Ultima domanda. Cosa non ti piace del mondo che abitiamo?

DE GREGORI: Posso dirlo veramente? Non vorrei essere poi preso per terrorista. Ti posso dire però una cosa che mi piace. Mi piacciono le telepromozioni fatte da Pippo Baudo, sono la cosa più bella che ho visto.