SPECIALE FOLKSTUDIO
I ricordi di coloro che lo hanno reso leggendario
(a cura del Rimmel Club)
IL
LOCALE
Il mitico locale "fuori dagli schemi" che ha dato il via alla carriera di alcuni dei più famosi cantautori italiani.
Locale di fondamentale importanza e trampolino di lancio per molti cantautori italiani è stato certamente il "Folkstudio".
Situato originariamente a Roma in via Garibaldi, esso era lo studio-cantina di un pittore americano: Harold Bradley, nel quale si riunivano amici pittori, artisti e musicisti provenienti da tutto il mondo. Avendo fruttato, a Bradley denuncie di disturbo della quiete pubblica per le riunioni alquanto rumorose, il pittore decise di improntare il locale nella formula giuridica "circolo privato culturale apolitico".
Tale iniziativa ebbe un grande successo tra i giovani, perché, in una sola serata c’era la possibilità di spaziare dalla musica celtica a quella brasiliana, dalla canzone d’autore a quella politica, dal folk al blues. Il locale concedeva insomma la possibilità ai giovani di esprimersi nella piena libertà musicale, senza condizionamenti di quanto andasse per la maggiore.
Si dice addirittura che un giovanissimo e sconosciuto Bob Dylan, sia passato per quel locale, con la sua inseparabile chitarra, ed abbia fatto ascoltare ai fortunati che vi si trovavano, le sue prime ballate.
Dopo alcuni anni, Harold Bradley, tornò a Chicago e la direzione del locale passò ad uno dei suoi fondatori, Giancarlo Cesaroni, che volle inaugurare una interessante e specifica sezione dedicata esclusivamente agli esordienti della canzone d’autore.
Fu allora che, cantautori italiani ancora oggi sulla cresta della notorietà e del successo, resero pubblici i loro primi brani ed espressero in musica i loro pensieri.
Francesco Guccini, Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Mimmo Locasciulli, Rino Gaetano, Gianni Togni, Luca Barbarossa, Sergio Caputo, sono alcuni dei cantautori che hanno avuto come trampolino di lancio il famosissimo locale che era il "Folkstudio".
IN
GIRO PER TRASTEVERE
da
http://www.vagabondo.net/Storie/trastevere/
Traversato il Ponte Sisto si arriva su Piazza Trilussa, tributo al grande poeta romano. Qui è già consigliabile una sosta, poiché all'angolo con via del Moro, c'è l'Art Cafè, ritrovo molto trendy, con i suoi sgabelli in alluminio e l'acqua che scorre sotto il bancone. L'ambiente, vagamente newyorkese, nel cuore della città, è aperto dalle 7 alle 3 del mattino.
Se si prosegue per via del Moro si incontra il forno del pane più fragrante della zona per non parlare dell'ottima pizza a taglio. Sempre su via del Cinque, in prossimità dello slargo ma un po` nascosta, c'è la pasticceria che, incredibile ma vero, a Roma produce le più buone torte Sacher, tanto care al regista romano Nanni Moretti, che nel quartiere ha pure aperto un cinema.
Se, tornando indietro, da Piazza Trilussa scegliamo di andare a destra e ci incamminiamo per via di Santa Dorotea, che deve il nome alla chiesa della santa, sarà bene tenere d'occhio l'enoteca Il Cantiniere, di Alberto Costantini, che mesce vini prelibati italiani, alsaziani e californiani, in combinazione con piatti sfiziosi, e spesso organizza corsi di degustazione. Via di Santa Dorotea incontra quindi via della Scala, resa famosa negli anni '70 dal cantautore Stefano Rosso, animatore insieme ad Antonello Venditti e Francesco De Gregori e a molti altri allora giovani musicisti del "mitico" Folkstudio, locale cult di Trastevere.
Prima di incamminarci per via della Scala notiamo di fronte a noi via Garibaldi, il viale in salita che porta al Gianicolo e dove hanno vissuto molti illustri artisti, tra cui il poeta pittore Rafael Alberti, scomparso recentemente. (Donatella Scatena)
GIANCARLO
CESARONI
Il Folkstudio nasce nel '60 come un locale tra arnici, con un associazionismo spontaneo e diviene subito, inconsapevolmente, un locale di successo.
Le sue proposte diverse, la maniera di gestirle ed il tipo di presenza ne fanno subito il locale intellettuale per eccellenza degli anni '60 - '62.
A questo punto Harold Bradley, americano purosangue, punto di riferimento ed ispiratore, pensa ai suoi interessi e ne fa un locale da show business, sui modelli del Village, con tre-quattro show men per serata, senza un discorso che non deve risultare minimamente impegnato, ma che suo malgrado funziona politicamente come punto d'incontro, e dove ogni tanto, approffittando della scarsa sorveglianza di Bradley, riescono a cantare anche i rivoluzionari, tipo Della Mea, Settimelli e la Marini.
Tale linea dura sino al 67', quando Bradley ritorna negli States (il suo show business ha fatto il suo tempo, il locale va male perchè sono sorti altri punti d'incontro più confortevoli e comodi, e perchè la confusione di linea ha allontanato un pò tutti).
Dall'ottobre del '67 con la nuova gestione diretta, si cambia completamente anche se gradualmente. Si ha il grosso vantaggio di essere indipendenti dal bisogno, e su tale sicurezza, sì può cominciare a gestire verso direzioni culturali ben precise.
Comincia subito il discorso dell’altra musica", cercando di accogliere, dare spazio e presentare i prodotti fuori dai canoni di consumo, tutte le proposte originali valide nella loro musica e nei loro contenuti.
Nascono progressivamente i recitals, le rassegne, e i festivals, insomma la presentazione di personaggi noti o sconosciuti in un'unità di discorso e di programmazione. Nasce il rapporto continuo con l'informazione, si cominciano a passare i comunicati stampa e vengono le recensioni. Il Folkstudio è diventato maggiorenne ed inizia a svolgere un ruolo di teatro dì musica dedicato alle nuove proposte e ai nuovi personaggi.
Tale ruolo viene recitato costantemente ed è con questo meccanismo che il Folkstudio diventa il vivaio da cui passano agli inizi tutti i personaggi conosciuti e sconosciuti di oggi, da Francesco De Gregori ad Antonello Venditti, da Tommaso Vittorini a Massimo Urbani (presentati nel millenovecentosettantatre come le nuove leve del jazz), da tutti gli interpreti di musica popolare da Maria Carta a Matteo Salvatore, sino alle nuove proposte di musica sudamericana con i Quilapayun o i Condores nel 1968-1969 sino a Daniel Viglietti nel 1976, con i Black Jack David irlandesi del 1977 ed il continuo vivaio del Folk-studio Giovani.
In quest'ottica di riforma e di contrapposizione alla musica di consumo dilagante, si cerca di allargare i confini e presentare le proposte diverse su piano nazionale e nasce l'etichetta discografi-ca nel 1975 con i dischi di M. Locasciul-li, V. Chalot, A. Infantino, A. Harman, C. Sannucci, la Folk Ma-gic Band, i Tarantolati, la musica contemporanea di Schiano e Guaccero e le Nacchere Rosse.
Sempre in quest'ottica di esportazione nazionale, vengono i tentatívi di gestione comune di circuiti spettacoli in Italia con altri centri politicamente attivi iniziato nel 1977 e proseguito sino ad ora con i Folk Festival e con le aperture delle nuove frontiere musicali, irlandese nel 1979 ed africana nel 1980.
Nel locale si continua a gestire sempre musica con lo stesso indirizzo.
Apertura a nuova musica e nuovi personaggi dando loro un palcoscenico per le loro proposte, un pubblico piccolo, ma buono per un riscontro, il massimo appoggio con i mezzi d'informazione per una propagazione del loro discorso, per aiutarli a proseguire nella strada intrapresa, fuori da un rapporto di dare ed avere e fuori da discorsi commerciali e di mass-media che specialmente oggi bombardano e distruggono ogni tentativo di proposta culturale.
Questa in breve la storia e la finalità di intenti del Folkstudio.
Oggi, dopo vent'anni di attività, siamo molto stanchi e delusi e vorremmo smettere. il momento politico e culturale è uno dei peggiori con il consumo che colpisce in tutti i campi ed il nicolinismo che ha determinato la nascita di una tribù di falsi operatori culturali, pronti a mungere in nome di operazioni più o meno intellettualistiche.
Sarebbe quindi il caso di proseguire per cercare di essere un'isola nel mare di consumo che ci circonda, ma non sappiamo se ce la faremo. (Giancarlo Cesaroni)
ANTONELLO
VENDITTI
Flash 1 - da “La
valigia del cantante” di Pino Casamassima – De Ferrari Editore
Ho conosciuto Francesco nel ’69 e poco dopo abbiamo messo in piedi un gruppo: ci chiamvamo senza troppa fantasia, “I giovani del Folkstudio”, c’era anche Giorgio Lo Cascio. Suonavamo solo la domenica, iniziavamo al pomeriggio e tiravamo avanti fino a notte. Io avevo già qualche canzone mia, mentre Francesco cantava Dylan, Cohen e De Andrè. La nostra sigla d’apertura era “Tapum Tapum” e chiudevamo con “I will good night”. Il folkstudio era un posto incredibile. All’epoca si trovava in Via Garibaldi, poi si spostò nella libreria “L’uscita”, quindi in via Sacchi, infine vicino al Colosseo, ma era già tutt’altra cosa rispetto al locale di Trastevere: con la scomparsa di Cesaroni era finito tutto.
Flash 2 - dal
sito Solegemello
Erano tempi lenti e con poche auto, erano passeggiate da farsi placidamente a piedi, avventure da mordere a fondo - notti comprese - fra bar, cantine, ristoranti, librerie, gallerie e iniziative... luoghi umani ed artistici legati strettamente dallo stesso spirito neo-romantico. Erano tempi - sana nostalgia per la giovinezza a parte - in cui Roma Capoccia dominava sul mondo infame dall'alto della sua rivoluzione culturale e il Folkstudio in Via Garibaldi (con annesso il limitrofo Bar delle Rose) era un microcosmo capace di far convivere guitti intellettuali e popolo, hyppies globetrotters e politici, ceti razze ed età, tutte unificate dal jazz, dal folk, dalla sangrilla e dall'amicizia grande, fatta di grande complicità. Erano tempi e luoghi che nel libro di Ernesto - tra canzoni pennelli e bandiere sessantottarde - riaffiorano con la loro verità e il loro colore reale, come ridipinti e lucidati, vendicando centinaia di scarni e frettolosi pezzulli di pavide penneasfera per forzate ricorrenze sui loro rotocalchi coi culi in copertina! Il Piemontese, borghese come noi ma già svezzato a racconti di guerra, montagne innevate e campagne, vita contadina, spinto della Resistenza, con quei quattro o cinque anni di più e quella stazza fisica ed ideologica superiore alla nostra gracilità di metropolitani, di studentelli, spalancò la porticina del Folk e subito pronunciò parole importanti, per noi spesso anche oscure. Teorizzò, come un tribuno, di antifascismo, di strade, fabbriche, masse, organicità, imponendoci crudelmente di "volare più basso, di lasciare qualche sogno in terra, di buttarci nella mischia quotidiana..." Ci inquietò e ci impose rispetto, trascinandoci in piazza con lui, facendo fino in fondo il suo dovere di militante e fottendosi mica male laddove, mentre noi riuscimmo a far la nosta parte restando nondimeno liberi, lui invece - uomo di marmo assoluto - fu ineluttabilmente irreggimentato e usato al punto da tarpare per lustri a venire la fantasia e le qualità liriche di cui era abbondantemente in possesso. Ora questo libro coloratissimo e musicale viene a liberarlo definitivamente, certo, quasi trent'anni dopo.
E' come se Ernesto - urlando e ricordando, senza mai prender fiato, i suoi anni migliori e fondamentali, non tanto di successo quanto di formazione, fosse riuscito finalmente a sciogliersi dai vincoli anacronistici e tornare libero e bello, giustamente ancora e sempre incazzato come una bestia, lucido come dopo una severa autoanalisi che - raschiando il fondo di ogni recriminazione e ripensando gli avvenimenti - lo rimette in gioco.
Un gioco che oggi ha di nuovo un gran bisogno di gente come lui, emendata dalla demagogia, sincera, recuperata al sogno degli amici di Sora Rosa e di Alice, di nuovo e ancora pronti a lottare contro il nuovo, ma non ultimo, "mondo di ladri".
Sì, mi sa che a Ernesto questa mia vecchia canzone va proprio su misura, guardaunpò, dalla prima parola all'ultima e non a caso lui l'ha sempre amata tanto...
Va bene. E allora anch'io come sempre "...Continuerò a cantare le cose della vita/e se ho sbagliato a viverle, per me non è finita...".
“Eravamo un gruppo di ragazzi che non dormiva mai - ricorda Antonello- stavamo sempre in movimento e tutto ci incuriosiva. Il Folkstudio era la nostra offcina. In tempo reale riuscivamo a capire se le nostre canzoni avevano una ragione di esistere. Le scrivevamo e appena finite le riproponevamo ad un piccolo ristretto, competente e assai critico. Anche se accomunati dalla stessa voglia e dalle identiche passioni eravamo molto diversi tra di noi. Ernesto Bassignano, Francesco De Gregori, Giorgio Lo Cascio ed io traducevamo, componevamo e cantavamo, inconsapevoli di vivere un periodo importante della nostra canzone.”
“Quando incominciai ad uscire dal Folkstudio – prosegue Venditti-e a fare concerti in giro per l’Italia mi accorsi quanto fosse recettivo il pubblico dei miei coetanei. Io vivevo tutto come un ex-fan dei Rolling Stones, dei Beatles e di tanti altri, inposizione privilegiata. Tanta era la gioia per riuscire a fare quello che desideravo. Ci sono voluti anni per capire che intorno a me non c’era soltanto interesse, ma anche un discreto giro di affari. Fui il primo artista a ribadire i propri diritti nei confronti di una casa discografica padrona assoluta di tutto quello che producevo. Cambiai etichetta e vissi un periodo difficile, anche sul piano personale. Mi separai da mia moglie e andai in esilio a Milano. Erano “gli anni di piombo”, la contestazione incominciò a colpire anche noi che ne avevamo fatto parte. Il “processo” a De Gregori degli autonomi al Palalido fu per me un trauma. Volli andarci anch’io dopo qualche mese e mi accorsi di essere solo. La casa discografica vedeva a rischio la mia popolarità, gli amici non capivano il perché di questo confronto e gli impresari non capivano perché non impiegassi il mio tempo in esibizioni più remunerative.
Suonai al Palalido e vinsi la sfida. Vendicai, a modo mio, Francesco.
Flash 3: dal
libro Folkstudio story, di Dario Salvatori
Bassignano :"Attenti, volano schiaffi!"
De Gregori: "Non fare il solito stalinista".
Lo Cascio (tifando De Gregori): "Non c'è motivo di scaldarsi tanto".
VendItti: "Fulmini, tuoni, denunce, condanne, scarcerazioni! Imparatevi gli accordi!
Cesaroni: "Mi avete rotto le palle".
That's Folkstudio.
Quando rimisi le mani su quel fottutissimo pianoforte pensai "Il Folkstudio è veramente morto, finito. Meno male".
A spiarmi c'erano cento occhi che quelli della barzelletta della civetta che fa il pappagallo sono uno scherzo, più quattro (Francesco e Ernesto) particolarmente carI. Poi due flashaioli da penna a sfera residuati bellici della dolce vita che ancora mi chiamavano Anita, otto preti in libera uscita travestiti e col tesserino da intellettuale, e lui, il Grande Vecchio Mammamia Che Paura, Cesaroni (che più lo guardo e più mi sembra lui, il Folkstudio).
La prima morale di questa favola è che solo lui, il "Buon Cesaroni quasi mai Giancarlo per gli amici, sembra aver navigato intatto tra gli anni, passando con estrema disinvoltura ed apparente soddisfazione dal sax di Mario Schiano alla ghironda dei Prinzi Raimund.
Quando rimisi le mani su quel fottutissimo pianoforte, dicevo, tutto sembrava finito, sepolto, passato e irripetiblle. "No pen-sava fra sè il pianista di passaggio - non è più il Folkstudio di via Garibaldi dove ci si divertiva ad annoiarci tra un ponce e l'altro dietro il banco della sora Maria, bar attiguo e comunicante, teatro ridotto di avventure etiliche e non, c'era un non so che, tutto parlava, suonava, cantava, no il Folkstudio non è questo, non mi commuovo neanche più. Oggi parlo, straparlo…allora...
In un angolo da osservare, spiare, il montgomery obbligatorio anche d'estate, ma siamo matti? Meglio una bella maglietta con le maniche corte e andare. Le tourneè erano trasferte al circolo Daunia di Foggia dove Cesaroni a momenti si ammazza (non diciamo come, eh boss?). Oggi palco da cento metri, mille fari, centomila watt, tre tir per tremila chilometri, se no come farei a cantare?
L'atmosfera, con la gente che continua ad entrare, si fa di festa tipo non si uccidono così anche i cavalli? E mentre sto per cominciare sento distintamente il bisbiglio di una quattordìcenne con maglietta "Patti Smith sei grande e bella", dice alla sua amichetta undicenne capelli a scacchi: "Hai visto chi c'è? C'è pure De Gregori, canta pure lui? Chissà se cantano insieme come ai tempi del Folkstudío?". Ma questo è il Folkstudio porca vacca! O no? Non c'è tempo, devo suonare, è un cammino all'indietro dove incontro Sora Rosa ...
Folkstudío è ancora il rivolo di sudore che parte dalla tempia sinistra e punge come una zanzara quando non hai messo l'autan, e gli occhiali che scivolano giù fino alla punta del naso, dove ricompare puntuale come un orologio un antico tic, ogni volta che sbaglio gli accordi, Folkstudio è anche silenzio profondo pieno di anni passati insieme, è chiudere gli occhi, è riaprirli e vedere ancora dei vecchi amici ...
"Attenti che qui volano schiaffi”, “Non fare lo stalinista", “Discutiamone con calma", "Imparatevi gli accordi!", “Mi avete rotto le palle”.
I ragazzini new-wave se ne vanno perplessi. "Era lui o non era lui?", dato che alla fine De Gregori non ha suonato. La gente se ne va; restiamo noi: il Boss, Ernesto, Francesco, sua moglie ed io. La festa è finita.
MIMMO
LOCASCIULLI
da “Storia di un
professionista dilettante” di Enrico Deregibus – L’Isola che non c’era –
Ottobre 2002.
Nel 1970 si fa le notti suonando pianobar. L’anno dopo si sposta a Roma per terminare gli studi e finisce nella leggenda del Folkstudio, dove già bazzicano De Gregori, Venditti e compagnia. Si propone a Giancarlo Cesaroni, il deus-machina del locale, che lo fa suonare la domenica pomeriggio (primo gradino), poi la sera insieme a Giorgio Lo Cascio e Stefano Rosso (secondo gradino) e infine con un concerto solo suo (terzo gradino).
“Quando mi presentai per la prima volta al Folkstudio mi portai la mia chitarra dentro una custodia di cartone: l’avevo appena comprata e non sapevo che lì c’era un piano che invece era il mio primo, unico e vero strumento. Con la chitarra sapevo suonare solo sette accordi e mi aiutavo spostando il capotasto a seconda delle tonalità, ma suonando sempre in chiave di do. Non ero un chitarrista ma avevo uno stile particolare nella “pennata”. Cantai tre canzoni (una mia traduzione di una canzone di Dylan, una canzone di Jaques Brel (Quella gente là) e una mia composizione) e siccome la cosa piacque continuai per moltissimo tempo a suonare la chitarra e lo feci anche sul mio primo disco Non rimanere là, che è un disco solo voce e chitarra. Quando poi, un po’ alla volta, cominciai a suonare anche al pianoforte si creò un certo stupore perché tutti credevano che io sapessi suonare solo la chitarra”.
All’inizio il decrepito pianoforte del Folkstudio è a muro e il Nostro deve suonare spalle al pubblico. Non ci sono microfoni e cantare rivolti al muro rende impossibile la comprensione dei testi. “Antonello non ha problemi” gli diceva Cesaroni quando lui si lamentava. “Si, ma lui ha una voce che spacca i muri” gli rispondeva. Col tempo riesce a convincere il patron a girarlo quel benedetto piano e, poi, a permettergli anche di cantare col microfono. Altro successo personale.
“C’era molta amicizia nel Folkstudio, molta complicità, molta solidarietà umana e soprattutto un senso di appartenenza che mai più ho ritrovato in situazioni e ambienti successivi. Non so se il senso di purezza che si respiravaa fosse giustificato e sufficiente, ma tanto mi bastava e mi basta: essere “parte integrante” di un qualcosa (idea, spirito, azione, progetto, modo) che emanava una sensazione di unicità e di esclusività”.
FRANCESCO
DE GREGORI
Flash 1 - da
“Francesco De Gregori, un mito” di Michelangelo Romano – Lato Side
FDG. Mio padre e mio madre non erano molto contenti di questo fatto del Folkstudio perché mio fratello ci favea le tre, le quattro di notte. Così cominciai ad uscire anch’io la sera per suonare al Folkstudio, avevo sedici-diciassette anni.
ROMANO. Mi ricordo che quando cantavi in pubblico all’inizio eri molto timido sia nei discorsi che facevi, sia come modo di cantare.
FDG. Ecco, come uso della voce sì, come discorsi no, appena stavo su un palco grande con molta gente sotto, facevo delle cose spaventose, facevo finta che si era rotto il microfono, poi dicevo “no, si è riaccomodato”, certe volte lo staccavo io, insomma cercavo di sbloccare questa timidezza e la gente rideva molto.
ROMANO. Mentre al Folkstudio questo non era possibile
FDG. Sì, perché al Folkstudio te li vedi lì sotto, vedi quello che sbadiglia, vedi quello che parla mentre canti, quindi ti demoralizzi molto.
ROMANO. E Venditti lo hai conosciuto al Folkstudio?
FDG. Sì, praticamemente lìho conosciuto lì; venne un anno dopo mi sembra e aveva due canzoni di repertorio: “Sora Rosa” e “Roma Capoccia”.
ROMANO. Senti, il fatto di andare al Folkstudio ed essere pagato, sia pure poco, cioè questa scoperta che potevi guadagnarti da vivere senza chiedere i soldi a tuo padre…
FDG. La prima volta che ho preso 1.500 lire da Giancarlo Cesaroni è stata una cosa molto bella. No, non pensavo di poterlo fare come mestiere.
ROMANO. Un altro aspetto di questo discorso c’è in Arlecchino
FDG. Arlecchino è una canzone sul mio ruolo, sul mio ruolo di una volta più che altro, cioè questo “fiori falsi e sogni veri nella friggitoria Chantant” è il Folkstudio agli inizi, dove non era importante neanche mangiare, bastava sorridersi, bastava comunicare, e c’è questo Arlecchino su un filo e la gente vuole vedere cosa fa, e Arlecchino non sono necessariamente io, ma i tipi come me in genere, a cui danno dei soldi in cambio delle sue acrobazie: “Quanti soldi ti hanno dato? La mia cella è un po’ più in alto e mi pagano di più”, però alla fine questo Arlecchino si fa i fatti suoi, indipententemente di quanto sia grande la stanza, da quanto lo pagano, vola senza filo e uno deve arrivare a volare senza filo…
Flash 2 - da “Io
e Caterina” di Andrea Fantacci – L’Isola che non c’era – luglio 2001.
Dal Folkstudio passavano molti cantanti popolari e ricercatori di musica popolare: la Marini, la Bueno, Sandra Mantovani, Settimelli, il Duo di Piadena, Matteo Salvatore, Otello Profazio, e contemporaneamente, parallelamente, passavano anche giovanissimi o anche meno giovani autori, cantanti, interpreti. C’ero io e c’erano anche Antonello Venditti e Giorgio Lo Cascio. Ma arrivava anche gente dall’America, dall’Inghilterra che faceva musica che per noi era sconosciuta.
Mi ricordo un duo che si chiamava John e Jean. Con due chitarre cominciavano a farci conoscere le canzoni di Bob Dylan e altri che noi non conoscevamo. Quindi il Folkstudio era un punto d’incontro di varie tendenze, di vari generi musicali. E chiaramente da questi incontri nascevano anche contaminazioni. Io fui uno di quegli esempi di contaminazione. Cominciavo a scrivermi le canzoni, però contemporaneamente ero anche molto attratto da quello che faceva Fabrizio De Andè, e anche dalle canzoni popolari italiane.
Quando il Folkstudio mi invitava a fare una serata, per evitare di esporrmi troppo direttamente con le mie canzoni, delle quali non ero così sicuro, nella prima parte facevo pezzi della tradizione popolare, canzoni dlele mondine, canzoni anarchiche e nessuno si scandalizzava. Se andavo lì e facevo questi pezzi, io studentello di Roma, sbarbatello borghese figlio di borghesi, non gliene fregava niente a nessuno. Facevo anche pezzi di Caterina Bueno, come “Maremma”.
Flash 3 -
da “Senza trucchi” di Isio Saba - Nuovo
sound - n. 1 /75 - 6 gennaio 1975
Tutte le domeniche pomeriggio c'è un "happening" di giovani, per lo più cantautori, che approdano alla pedana del Folkstudio prendendo contatto per la prima volta con il pubblico: ognuno di essi è seguito da qualche amico e così la platea è benignamente predisposta ad accogliere questi nuovi poeti. Si presentano tutti simili, tematiche ricorrenti stili e musiche vicine a quelle dei cantautori più impegnati dell'ultimo decennio (da Dylan a Cohen, da De André a Gaber, da Venditti a De Gregori…!).
Dopo il Folkstudio, questi giovani ritornano alle loro esperienze quotidiane, semplicemente così come sono arrivati: qualcuno diventa popolare, nel senso che la sua fama supera i confini di Trastevere e di Roma e che incide un disco, comunque rimane ancorato alla pedana e agli amici di via Sacchi.
Quelli che vengono per la prima volta, si rendono conto che Francesco o Antonello sono come Mimmo, Mario, Giorgio, Giovanna e altri: con loro si parla da pari a pari e il divismo non esiste per nessun motivo.
Flash n. 4 – da
“Folkstudio story” di Dario Salvatori.
“Tutti sono capaci a suonare di fronte a duecento persone ma li vorrei vedere a suonare per tre!
Diffida dalle accordature troppo precise e da coloro che non amano cavalli e cani e non lasciare l'intera paga al bar (e mi raccomando, dopo l'una niente casino).”.
Alla fine degli anni sessanta, quando vi misi piede per la prima volta, il Folkstudio abitava in via Garibaldi 59, in un locale fatto a forma di elle, un pò umido e sporco, privo di qualsiasi fascino.
Quel pomeriggio io e mio fratello Luigi (Ludwig), prendemmo il filobus che veniva giù da via Jenner e cercando di non prendere troppo freddo alle mani ci dirigemmo verso le pendici del Gianicolo. Mentre facevamo a piedi l'ultima parte di strada Ludwig mi dette le ultime raccomandazioni: - Se sbagli un accordo fai finta di niente, che non se ne accorge nessuno . . . cerca di ricordarti tutte le parole a memoria, se le leggi su un foglietto pare brutto. . . non ti demoralizzare se mentre canti qualcuno si alza e se ne va, tanto succede sempre.
Devo dire che questi tre consigli si sono dimostrati validi in assoluto anche in seguito, ma in quel momento mi sembravano terribilmente fuori luogo. lo ero preoccupatissimo per le mie mani intirizzite e avevo paura di non riuscire a suonare la chitarra; eppoi il Folkstudio era per me un ambiente misterioso in cui venivo introdotto grazie alla burbera benevolenza di un fratello maggiore ormai affermato interprete di canzoni popolari americane.
Ludwig in quel periodo suonava spesso in trio con Dario Toccaceli e Giuliano Bellezza: con tre chitarre si esibivano in un repertorio che spaziava da "Banks of the Ohio" a "Deportees". Mio fratello prima di cantare traduceva a braccio le canzoni e nominava sempre un certo Woody Guthrie che allora nessuno conosceva; poi attaccava e la gente stava lì a sentirlo, un pò attenta e un po’ stupita.
Erano gli anni del Vietnam, delle rivolte studentesche: ma erano anche gli anni di Peter Paul e Mary Travers che importavano in Italia una versione alquanto alquanto edulcorata di "Blowin in the wind”, gli anni dei festívals di Sanremo "finalmente aperti ai giovani", gli anni dei Beatles-Baronetti.
Mio fratello, al centro della pedana rossa, intonava in tutta pace la storia di quest'uomo che andava in giro per l'America a cantare "Questa terra è la mia terra" e aveva scritto sulla sua chitarra "Questa macchina ammazza i fascisti".
Il Folkstudio era allora (e tale è rimasto in definitiva anche adesso) un palcoscenico aperto a tutti. Chiunque poteva chiedere di fare il suo numero la domenica pomeriggio, davanti al pubblico pagante, senza bisogno di audizioni preliminari da parte di Cesaroni. Per decidere se era il caso di continuare oppure no si dava credito alle reazioni del pubblico che raramente erano negative. Questo spiega come in certi pomeriggi domenicali gli "artisti” fossero in netta superiorità numerica rispetto al "pubblico".
Molti diventavano artisti senza nemmeno accorgersene: bastava venire due o tre volte di fila come spettatori e poi, se sapevi suonare un pò la chitarra, o se sapevi o credevi di saper cantare, venivi inevitabilmente cooptato in qualche tipo di jam session. A quel punto era fatta: potevi continuare a venire senza più pagare il biglietto e magari diventare una pop star.
Uno che cominciò in questa maniera la sua carriera di musicista è Giorgio Lo Cascio. Dopo un paio di settimane che veniva a sentire si presentò un pomeriggio con chitarra a dodici corde cecoslovacca e una traduzione fresca fresca di "Sad eyed lady ofthe lowlands", la cantò come meglio poteva e diventò uno dei giovani del folk (gli altri tre eravamo io, Venditti e Bassignano).
I Giovani del Folk ebbero un lungo periodo di gloria ed una rapida parabola discendente culminata in uno storico litigio con Cesaroni che accusò i quattro di essere '”entrati nel pallone”.
Entrare nel pallone voleva dire varie cose ma fondamentalmente una: essersi montati la testa. Noi entrammo nel pallone quando una sera ci rifiutammo di suonare di fronte a un pubblico pagante di tre persone. Cesaroni sosteneva che un vero artista deve saper suonare (e divertirsi) anche con una sola persona davanti; adesso magari saremmo anche disposti a dargli ragione ma allora il nostro "Ego" (altro vocabolo prediletto da Cesaroni) aveva evidentemente preso il sopravvento.
Un'altra avventura i Giovani del Folk la ebbero in un teatrino di Napoli, e fu un'avventura ignominiosa.
La denominazione Giovani del Folk sottintendeva per il pubblico romano quella di Giovani del Folkstudio; ma quando arrivammo a Napoli trovammo una platea stranamente affollata che era intervenuta per ascoltare da noi canti anarchici e canti delle mondine (intendendo per folk musica popolare).
Chiarito l'equivoco a metà del primo tempo la gente cominciò civilmente a sfollare ma quelli che rimasero poterono godersi una furibonda lite "on the stage" fra Venditti e Bassignano, reo di aver sbagliato un accordo dell'accompagnamento di "Sora Rosa''.
La sera facemmo tutti la pace a cena in un ristorante pieno di candele e la mattina dopo ritornammo a Roma sull'850 special del padre di Lo Cascio, raccontammo la cosa a Cesaroni che rise molto e provvide a cambiare la nostra denominazione nelle future “tournées all'estero".
Tutto questo avveniva un paio di anni dopo quel pomeriggio che mio fratello mi trascinò al Folkstudio per la prima volta; l'esibizione fu abbastanza disastrosa, avevo le dita congelate e non presi un accordo giusto sulla chitarra; a metà di "Buonanotte Nina" per l'emozione mi venne un groppo in gola e mi dovetti fermare e ricominciare da capo. Qualcuno in mezzo al pubblico cominciò a tossicchiare, io diventai rosso e in qualche modo arrivai fino alla fine e scesi dal palco convinto che mai più avrei accettato di salirci. Chiesi a Ceseroni (allora gli davo del lei) come ero andato e lui mi disse "Uhm, naturalmente non stavo lì a sentirti, ma se la prossima settimana leggi il tuo nome sul giornale nella programmazione di mercoledì sera, puoi tornare".
Così successe, e da allora sono cambiate un sacco di cose, per me e per il Folkstudio.
(Francesco De Gregori)
ERNESTO
BASSIGNANO
Ernesto Bassignano scrive canzoni fin dagli anni 70. Prima, ballate per le azioni del teatro di strada, poi pezzi suonati con De Gregori , Venditti e Locascio al Folkstudio, e ancora canzoni di protesta manifesti della lotta operaia, suonate nelle Feste dell' Unità di tutta Italia ; infine le composizioni contenute nei suoi dischi. Il suo ultimo disco, "La luna e i Falò", è del 1989.
Nato a Roma il 4 aprile 1946, vive per lunghi anni a Cuneo. Rientrato nella capitale, studia scenografia all’Accademia di Belle Arti. Fa teatro di strada con Gian Maria Volonté e frequenta il Folk Studio, dove stringe amicizia con De Gregori, Locascio e Venditti. Diviene organizzatore di rassegne sulla nuova canzone. Fino alla chiusura del giornale, è critico musicale di "Paese Sera" e collabora a programmi radiofonici. Musicalmente esordisce nel 1973 con l’album Ma, inciso per la Ariston. Le tematiche di base del primo disco sono strettamente politiche. La musicalità è folk, tipica delle composizioni politicizzate dell’epoca. Trascorrono due anni durante i quali l’autore affina le sue capacità espressive. Incide Moby Dick (RCA) nel 1975. Se le composizioni, dal punto di vista musicale, ricalcano lo stile di Luigi Tenco, i testi sono ancora sensibili alle tematiche sociali e solo in apparenza sono meno impegnati. Fra i brani contenuti: A Victor, dedicata a Victor Jara, musicista cileno e Moby Dick, un attacco contro la Democrazia Cristiana. Nel 1976 la RCA pubblica un album antologico, registrato dal vivo, intitolato Domenica musica a cui prendono parte gli amici: Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Lucio Dalla, Paolo Conte, Rino Gaetano, Renzo Zenobi ed altri ancora; quindi nel 1978 il 45 giri Cenerentola col quale chiude la prima parte della sua carriera artistica musicale. Nei cinque anni successivi abbandona la musica per dedicarsi ad attività giornalistiche e radiofoniche. Nel 1983 si riaffaccia nel mondo della musica con l'album D’Essai. Il nuovo disco è dedicato ad Amilcare Rambaldi, il presidente del Club Tenco. Tutto l’album si ispira al cinema, per parlare di un’epoca irrimediabilmente finita. I titoli servono all’autore a volte come spunto per un omaggio sincero, a volte per fermare attimi fuggevoli o per flash istantanei su avvenimenti che lo colpiscono, ma solo poche volte c’è un reale nesso tra i film e le parole delle canzoni. Nel 1985 compare l'LP Bassingher, soprannome affettuoso che gli amici hanno attribuito all’autore. Nel 1989, rifacendosi allo stile del Cantacronache, il cantautore compone Mi chiamo Gian Maria, sigla della rubrica televisiva "Diogene" di Antonio Lubrano. Sempre nel 1989 un nuovo LP, La luna e i falò, acclamato dalla critica. L’album è un viaggio alla scoperta di se stesso, un’indagine malinconica sui sentimenti. Vi sono, nei brani, frequenti allusioni al trascorrere del tempo e gozzaniani ricordi del passato, uno dei brani, Il puntino è dedicato a se stesso, una sorta di autoipnosi per sopravvivere.
Oggi Ernesto fa il giornalista free lance, per testate e anche per programmi radiofonici. Sarebbe però ora che qualcuno si prendesse la briga di riportare il suo lavoro all'attenzione del pubblico.
Flash 1 - dal
sito Solegemello
“Francesco vorrei che tu, Antonello, Giorgio ed io fossimo colti per incantamento….”
Eravamo quattro amici al bar, certo ed era, figurarsi, l’autunno del ’68. Il bar si chiamava Bar delle Rose ed era assolutamente alla metà della salita del Gianicolo, ad un metro esatto dalla porta del formidabile, unico, fatiscente quanto esplosivo primo Folkstudio: ma si, proprio quello fondato otto anni prima dai fratelli-coltelli Cesaroni e Bradley: un chimico bianco con la passione della musica e dei cavalli, e un pittore nero che faceva l’attore nei kolossal.
Eravamo quattro ma oggi, così come ha voluto il porco destino, siamo rimasti in tre.
Già perché il mese scorso se n’è andato il caro Giorgio, nonostante col suo male avesse ingaggiato una lotta strenua e coraggiosissima, ch era sembrata per qualche tempo vittoriosa.
Antonello, Ernesto, Giorgio e Francesco, appunto: Venditti, Bassignano, Lo Cascio e De Gregori: quattro giovani neppur tanto scapigliati ma con coscienze adamantine, ognuno con una sua età, un suo vissuto e delle esperienze anche molto diverse, che qualcuno un giorno, in seguito e ciò nonostante, volle chiamare unificandole “scuola romana”.
Erano legati comunque, i quattro, dallo stesso amore per il folk, la canzone d’autore, la poesie e la politica. Giorgio era il figlio di Cohen, Francesco di Zimmerman (Dylan, ndr), Antonello di Elton ed Ernesto del povero Tenco, l’angelo senza spada caduto nelle grinfie delle città dei fiori, l’anno prima. Insieme cantavano gli spirituals perché all’epoca non si poteva fare altrimenti. Separati invece, le loro prime canzoni, piene di rabbia, vino, donne, funerali immaginari, aquiloni, soldati, treni e sogni di libertà.
Antonello era barbuto, sempre col montgomery, gli occhiali e la paranoia che gli si toccassero i capelli e il culo. Giorgio aveva sempre caldo e stava sempre in camicia, bianca e pulita. I capelli ricci, un testone alla Angela Davis e gote rosse. Francesco poca o nulla barba, un impermeabile largo del babbo con bavero alla “provaci Sam”, una pipa spenta, tante letture esulcerate e allegoriche, la voglia inesausta di imparare “il finger picking” dal fratello “hobo” Luigi. (Il fratello di De Gregori, Luigi, prenderà il nome di Luigi Grechi. Grechi è il cognome della madre, lo fece per non intralciare il fratello quando cominciò ad avere successo, ndr)
In più “tirava” la bocca come il suo mito di Duluth, piaceva alle bimbe anche se era timido e lottava per non soggiacere mai alle imposizioni di quel fetente stalinista dell’Ernesto al quale, per via di cinque anni in più, il “boss” Casaroni aveva dato il compito di tenere tranquilla e composta la banda.
E allora ecco appunto l’ingrato compito, venuto il nostro momento di guadagnarci le tremila lire a sera, di andare a catturare i compagni schierati al bancone del bar o davanti al relativo flipper e riportarli di peso sulla pedanina rossa inmezzo alla puzza di fumo e il profumo di sangrilla, dribblando le poltroncine sparse e le pantegane d’autore e musicofilo-ideologizzate tra di esse ciondolanti. Ed ecco i primi compleanni comuni tra il “vecchio” Ernesto e il giovane Holden-Francesco visto che il galeotto 4 aprile, ebbene si, li aveva resi ulteriormente complici. Ed ecco le rassegne e i primi viaggi sul maggiolone di Antonello , ecco le trasferte importanti e le feste popolari sui palchi sgangherati del suburbio romano, spesso in compagnia di un’altra grande amica come Clara Sereni, magari per l’interessamento d’un Mario Schiano o d’un Leoncarlo Settimelli. Nel ’72 i quattro amici cominciarono a prendere strade separate. Prima Antonello conla sua “Roma capoccia”, poi Francesco con “Alice” decollano per diventare ciò che sono oggi, mentre Giogio si ferma i locali alternativi ed Ernesto si dà alla politica sul serio, prendendo a fare l’agit-prop con o senza chitarra per 30 e anche 40 mila chilometri l’anno, in treno o in auto, da Trapani al Trentino.
La serata che decreta definitivamente la fine della comune scapigliatura è quella del Teatro dei Satiri, nella quale, accanto ai due “Theorius campus” appare un nuovo soggetto pop molto meno d’autore ma di potenza espressiva inconsulta: un personaggio che quella sera Ernesto sulle prime non apprezzò per le sue tematiche ma che presto dovette imparare a seguire per la sua indiscussa capacità melodica e pianistica: il piccolo urlatore si chiamava Riccardo Cocciante.
Ciao Giorgio, Ciao Giancarlo ! (Cesaroni è scomparso nel '99, ndr), auguri Francesco ed Ernesto!
E trent’anni dopo cos’è rimasto di quelle tremila lire a sera per tre canzoni, di quel fumo, quelle sagome iperreali accatastate sulla porta di Via Garibaldi? Andateci, una sera a Trastevere a cercarne le tracce! Le insegne sono diverse, ma come direbbe Stefano Rosso, Via Garibaldi è sempre là e i colori della nostalgia non sono cambiati.
Essi lottano ancora dentro ed insieme a noi, senza vergogna!
Flash 2 - da
ernestobassignano.it
De Gregori con trench e pipa che lo ha seguito tra i baraccati dell’Esquilino, Tinin lo ha appena conosciuto, sempre in Trastevere.
II jazzista Francesco Forti, amico di Grieco e sincero estimatore del suo repertorio, dopo aver sentito Tinin cantare le sue ballate buffe, lo ha convinto a presentarsi al Folkstudio dal boss Cesaroni:
"Basta con i latrati di questo cane d'un Battisti e tutti gli altri popparoli, sanremesi o meno! Tu e tutti gli altri cantautori che sanno cantare e scrivere di cose vere — gli dice — avete il dovere di farvi avanti. Cabaret, canzone politica o d'autore, va tutto bene ma, mi raccomando: basta, anche voi, con la facile demagogia e il populismo spinto da sloganistica canora.Bisogna inventare una nuova canzone civile, perdiana, sennò,da un lato esisterà sempre Sanremo e dall'altro i rivoluzionari che cantano roba per la piazza, solo per se stessi e chi è già d'accordo!"
E' così che, solidale con Forti e convinto si debba sul serio cambiare musica, arriva, non più da spettatore, in Via Garibaldi.
Ed è così che il boss lo ascolta, lo trova ok e lo presenta immantinente agli altri due cantautori giovani, tali Antonello e Francesco, che da pochissimo tempo hanno preso a frequentare con successo quella lunga salita per il Gianicolo, lastricata di porfido.
Rosa, rosso, arancio, nocciola, quattro macchie di verde per quattro piantine.
Via Garibaldi, pochi alberi e tanti sampietrini, due bar e un ristorante per i signori. Via Garibaldi dove, quasi in cima alla salita, prima della caserma dei caramba, Giancarlo Cesaroni ha posto la sua tana dove una sera era passato pure, perché mito non fosse solo una parola, un certo Dylan, eroe del Folk City al Greenwich Village.
E a proposito di Village, anche lo stesso papà di Dylan, Dave Van Ronk sarebbe poi venuto e ritornato, anno dopo anno, a trovare gli amici del Folk di Roma, a dar lezioni di chitarrismo blues and rag forte e scarno, a cantare il country-blues d'autore, certo, ma anche Weill e persino una sua versione dell'Internazionale, per salutare a pugno chiuso!
Via Garibaldi è lunga e ancora deserta nel sessantanove, tant'è vero che si può arrivare al Folkstudio ogni sera parcheggiandoci davanti. Un cappuccio, un vino, una birra e un cicchetto al Bar delle Rose a fianco e via, dentro il budellaccio muffito dove ogni tanto, in una nuvola di fumo che pare nebbia in Val Padana, qualche sorcio fa il solletico ai piedi d'un qualche spettatore che zompa per aria.
Sta insomma nascendo una bella amicizia e in pochi mesi i tre cantautorelli, cui s'è aggiunto un amico chitarrista di Francesco, Giorgio Lo Cascio, comincia a scaldare la storica pedanina rossa e ad avere ogni domenica qualche decina di fans in più.
II mondo del Folk, tra fumo, sangrilla, polvere, muffa e vecchie sagome di plastica abbandonate colà da chissà quale artista iperreale misconosciuto, diventa il loro mondo e la loro casa.
Tutte le sere alle ventuno, non solo più le domeniche pomeriggio, tutti presenti! Ci sia da cantare, da ascoltare o solo da conoscere, perchè ogni sera, oltre ai soliti noti tra jazz, folk e canzone di lotta, possono arrivare artisti stranieri e nuove scoperte di Cesaroni, che pare aver contatti in mezzo mondo.
Tre canzoni per uno all'inizio, in repertorio, e, poi, una nuova a settimana, se non al giorno: i tre sono diventati autori indefessi e prolifici, pronti a presentare, a proporre al giudizio del loro pubblico di cento esperti, le loro nuove composizioni, precedute da una sigla che, in definitiva, si presenta ormai come un vero manifesto.:
"Sto pensando da molti anni a una canzone che sia di tutti. e, non soltanto mia, che non canti per cantare, solo per dimenticare..."
Antonello Venditti è buono, generoso, spaccone proprio come il "Cicalone" che resterà sempre. Già allora è mezzo comunista ateo e mezzo cattolico credente, perché lui, Antonello, è in pratica il compromesso storico fatto uomo.
Lo chiamano Mifune perché sembra davvero il celebre Toshiro dei "Sette Samurai".Arriva dopo aver parcheggiato il suo Maggiolone nero e subito attacca con la sua nuova barzelletta fresca di giornata: è inesauribile. Sempre col montgomery, anch'esso nero, con una barba ben curata e dei capelli che sono la sua pena. Basta toccarglieli perché si terrorizzi:
"Nooo che mi cascano, lasciatemeli stare, maledizione!"
La prima volta che Tinin lo vede è una domenica pomeriggio d'ottobre e sta "zappando" sui tasti in Sol con le caratteristiche dita medie sollevate, (spesso i tasti li fa saltare in aria).
Canta, accompagnato dal suo amico Sandro alla chitarra, l'esulcerata e pittorico decadente Tramonto rosa (con nuvole di grigio).
Giorgio Lo Cascio, invece, è timidissimo e quando inizia a cantare le sue ballate coheniane diventa tutto rosso sotto i riccioli. Non ha mai freddo e anche in pieno inverno, in quel buco che non si scalda mai se non con il fumo delle sigarette e il fiato di sangrilla di cento persone, sta sempre in camicia, una delle sue preziose camice da cantautore.
Francesco, glabro, magro, snob, introverso e principesco come da oleografia, sembra ancora più magro, infagottato com'è in giacche ed impermeabili del babbo bibliotecario. Figurarsi se non fuma la pipa, se non arriva con il collo del trench erto da sembrare Bogart:, se non si fa desiderare sul palco, se non si spara ore di flipper nel Bar delle Rose lì a fianco, scolandosi birre disperate.
Spesso tocca proprio al presentatore Tinin - che al Folk tutti già chiamano il "Bassigna" ed è il più anziano e "preciso" – andarlo a pescare al banco o al flipper del bar perché, nonostante sappia benissimo che è il suo turno, gli piace troppo farsi aspettare e farlo incazzare.
Dopo gli apripista della canzone d'autore alla romana, Edoardo e Stelo con la loro romanissima e storica Lella, "La fija de' Projetti er cravattaro"
Sono dunque arrivati loro, più politicizzati e incazzosetti, ad intrattenere i coetanei con le loro storie surreali, cattive, tragicomiche. "Canzoni d'odio e d'amore" insomma, come le chiama il Francesco.
Le canzoni, le loro canzoni, le loro due o tre canzoni a sera, uno dopo l'altro, seduti sul seggiolone, anch'esso di color vermiglio, come la pedana, lui e Giorgio, Francesco molto spesso in piedi, Antonello al pianoforte e la timidissima corista Diana Corsini a dar man forte, quelle volte che c'è.
Civita, A Gombrovicz, Sto pensando per Tinin, nel tentativo frettoloso di superare la strada, l'inno, la demagogia insita nel farsi capire gridando, nell'aver dovuto tentare d'essere popolare a tutti i costi, scrivendo le sigle itineranti del "Teatro di strada."
Al "Bassigna" tutti riconoscono esperienza umana, politica e civile, ma deprecano, ironizzandoci su mica poco, le sue logorroiche presentazioni per le quali, se un brano dura tre minuti, lui ne spende quattro per descriverlo e farci ricamini ideologici infiniti.
La casa del pazzo, The Partisan e Suzanne quelle di Giorgio, perché Cohen è il modello, quasi un'ossessione. Giorgio, il cantilenante, ipnotizza la sala e anche se stesso, al punto che ogni tanto bisogna svegliarlo dalla trance di quei cazzo di La minore e Mi 7 ripetuti all'eccesso sotto la voce scarna e quasi recitante.
Rosso corallo, Al mio funerale, Nina e Signor aquilone per Francesco, che tentava di italianizzare il suo country dylaniato con ritmi più tranquilli, melodie nostrane, temi personali tra i quali la morte, il vino e l'amicizia prevalevano. Francesco gambe unite, piedi in dentro, mette la cicca accesa tra le chiavi della chitarra - tutti a imparare perché fa molto fico -, "tira" la bocca e la voce proprio come il suo idolo di Duluth, del quale ha già tradotto molto, usa metafore coltissime, al limite dell'astruso per alcuni, favolose citazioni per altri.
Lontana è Milano, A Gesù Cristo e Sara Rosa per Toshiro-Antonello che, in più, aggiunge, spesso a richiesta, perché si cantava insieme e faceva cantare tutto il pubblico, la sua versione rock-ironico-pacifista della militare Ta-pum.Antonello è ancora più cattivo e provocatorio di Fo, di De André e della Marini nei confronti della Chiesa cattolica, del Vaticano, d'un dio che desidera e a cui vuol rivolgersi, a patto che sia di nuovo e per sempre un dio degli uomini e non della liturgia. Quando attacca le prime strofe di a Gesù Cristo, il pubblico del Folk si divide violentemente:
"Ammazzete Gesù Crì quanto se' fico, chissà che me credevo che stavi a fa'/ volevo un po' vede', io so' ignorante, per' monno ch'hai creato, che stavi a combina'..."
Naturalistico e "genovese" Tinin, ipnotico e ossessivo Giorgio, dolcissimo, simbolista e affabulante Francesco, potente, acuto, incazzoso un Antonello ancora in lingua romanesca, se non proprio verace, quanto meno appena rivisitata da studente del primo anno di legge.
Insomma, e un'oretta d'autore mica male, spesso presentata e animata da papà Archie Savage, uno dei componenti della formazione "Folkstudio Singer", nume tutelare dopo l'abbandono di Arold Bradley, negrone di ottanta chili che balla e canta da dio, ha una risata di tuono e se ti da una pacca ti sderena.
Un'oretta che termina, immancabilmente, con la sigla ninna nanna Irene Goodnight, ripetuta due o tre volte per far capire che è assolutamente ora di chiudere, di andare a dormire.
E se qualche impenitente ingordo, innamorata o rompicoglioni proprio non capisce, allora è il boss stesso che zompa in pedana e fa segni con le braccia degni d'un marine sulla tolda dell'Enterprise mentre i quattro cantautori, assonnati e imperterriti, ad libitum continuano con la litania:
"Irene goodnight, Irene goodnight, goodnight Irene goodnight Irene, y see you in my dreams ".
Ma quale Scuola Romana... Tinin, Francesco e Antonello si sono ritrovati per puro caso insieme a scrivere e cantare canzoni in uno stesso luogo e nello stesso momento, a fruire del gran lavoro popolare, dei modi, dei temi di quei campioni contadini e borghesi di città che avevano, nei dieci anni precedenti, tramandato con tigna e raccolto con amore, dialetti e relativi canti regionali; molto spesso, dalle radici comuni, dalla Val d'Aosta al profondo Sud.
E allora è stato bello pensare, rifarsi ai vari Dylan, Tenco, Brel e Ferré, ma è stato altrettanto interessante ascoltare le ballate toscane, da Leoncarlo Settimelli e Caterina Bueno: barba, pochi capelli, un po' di pancia e grande simpatia per l'intellettuale e giornalista Leoncarlo; bellezza, straordinaria comunicativa, vino rosso e passione per Caterina, la stessa cui De Gregori, più di dieci anni dopo, dedica una significativa canzone d'affetto e stima, lei, la toscanaccia dalla voce rauca che, per un'estate intera, divide a metà col suo chitarrista, da vera rivoluzionaria.
E le ballate autobiografiche pugliesi dell'ex morto di fame Matteo Salvatore che ora, sopravvissuto alla miseria del Tavoliere, è osannato dalla borghesia democratica romana e sbanda paurosamente, tradendo gli assunti rabbiosi per qualche invito in Rai o qualche decina di biglietti da mille? Matteo, o lo ami o lo odi, non c'è scampo. Se riconosci nella sua faccia, la sua voce e la sua chitarra le storie lacrimevoli che racconta e non pensi ai suoi modi paraculi di vendersele: beh, tutto bene.Ma se analizzi il suo essere diventato, in pochi anni di permanenza a Roma, il cocco dei "bene" progressisti e lo stolido pittore di acquerelli naif compiaciutissimi, la sua fame di riscatto senza dignità...
E Otello Profazio, divo folk calabrese, che ormai è un'istituzione con le sue storie antiche e terribili, che spaccia per tradizionali, mentre sono regolarmente depositate alla Siae a sua firma?C'è, poi, la potente, incredibile e incazzatissima super proletaria sicula Rosa Balistreri che - se in piazza non trova microfoni - canta a voce nuda e si fa sentire comunque da migliaia di persone: l'importante è non perdere l'ingaggio, oltre che trasmettere la poetica del suo amico e complice Buttitta da Bagheria e altre ennesime storie di sfruttamento e di mafia. Rosa, come Matteo, ha campato per anni a pane olio e sale, mica no.Ora, con l'ausilio d'una chitarraccia, d'una rabbia infinita e d'una voce che è un ringhio, fa il folk di lotta, quello, magari, un tanto al chilo e due accordi, ma di grande e immediata presa politica e umana.
I più spassosi? Merli e Chittò, come dire il Duo di Piadena, anch'essi protesi nello sfruttamento del momento e del filone " Uva Fogarina" finché dura.
II cotè cittadino del folk politico è invece rappresentato, in Via Garibaldi, particolarmente da Ivan, Giovanna e Paolo, come dire Della Mea, la caposcuola Marini e Pietrangeli. Ebbene, Ivan è stonato, con la "zeppola", non è un gran musicista ma le sue ballate, spesso in dialetto milanese, sono ossessive e trapananti, fantastiche e metaforiche, riuscendo a volte a sfiorare la grande poesia epica. Paolo, già prima di Contessa, era il più moderno, caustico, coraggioso interprete delle battaglie di fabbrica, di piazza e di strada, riuscendo a raccontare - per sommi ma fondamentali capi - parole d'ordine, slogans, bisogni, invettive e aneddoti nei tre minuti d'una fulminante canzone.
Giovanna? Beh Giovanna non si discute e non si discuterà: è e sarà il capo, la responsabile, la grande madre d'un movimento nato alla fine degli anni cinquanta e spentosi nella metà dei settanta, quando Pippo Baudo portò il folk a Canzonissima. Allieva della mondina Giovanna Daffini, ha saputo coniugare i canti del lavoro con gli insegnamenti chitarristici di Segovia, la musica contemporanea con Brecht. La sua faccia senza età, la sua fierezza, la sua voce mutuata dai campi, la sua maniera di raccontare tra una canzone e l'altra la realtà, traducendola in immagini degne di Fo, non abbandoneranno mai la mente di Tinin e di tutti gli altri buoni e generosi figli e allievi del Folkstudio.
Ospiti fissi? C'è "Superguitar" Kuipers, a dar di penna spasmodica e blues, inventando nuovi ritmi, deliziando tutti con la sua risata folle e la lingua un po' olandese, un po' inglese e un po' italiana che racconta storie fantastiche tra birra, cani, piattole parlanti, medicin-show e isole incantate.C'è Luigi "Ludvig" De Gregori, fratellone di Francesco, innamorato perso di Guthrie e Seeger, appena tornato dal suo ennesimo viaggio in Irlanda, alle radici del country e sempre in guerra con l'accordatura della sua chitarra: "Scusate ma stasera ho bevuto troppo poco e i folletti Poltergheist si sono incazzati con me..."
Cesaroni ha preso ad odiarlo, il Luigi, perché dice porti sfiga: il fatto è che il boss ama i cavalli e le corse, è un grande scommettitore. Luigi pare abbia pronosticato qualcosa di male al cavallo del boss e il povero animale si è azzoppato davvero. Da quel giorno, per mesi, il boss s'apposta sulla porta e, come Achab, scruta nella notte per avvistare la balena, la maledetta balena Luigi del malaugurio.
Fra Giovanna e gli altri dei vari canzonieri politici e Matteo, Otello, Maria, Caterina, Rosa, Tonino, il Duo di Piadena e gli altri folksinger puri - molti di loro Tinin li ha visti ed ammirati sul palco del Centrale, due anni prima, nello spettacolo di Fo -, è nata la sponda d'autore e civile: se De Gregori è un figlio di Dylan e Antonello di EItonJohn, Tinin lo è dei francesi tutti e di Tenco in particolare. C'è insomma di che mettere le basi per una nuova buona canzone italiana, confrontandola con quella già nata a Milano e Bologna , dei vari Gaber, dei Guccini, degli Endrigo e degli amatissimi genovesi.
Tre sacchi a sera a fine cantata e sono pizza e sigarette per tutta la settimana. Sono nuovi amici, ragazze carine e disponibili, che si bevono i racconti delle loro chitarre e del pianoforte, come estasiate. E spesso li amano.
Serena per esempio: una minuta, carinissima moretta sempre in prima fila stravaccata di sghembo sulla poltrona rossa: Serena bella e impossibile. Punta neanche troppo di nascosto Francesco, bello e più impossibile ancora, che spesso ama appunto farsi puntare e basta e si accompagna a una certa Nicole, una pittrice un po' eccentrica che gli fa da nave scuola.
Ma Serena piace molto anche a Tinin, che diamine. E allora, certamente senza sentirsi per questo menomato nell' orgoglio, lui pressa sempre maggiormente l'esulcerata fan degregoriana finchè essa, forse proprio per ripicca verso il suo principe schizzinoso, accetta la sua corte e si accontenta, per così dire, d'un altro lungagnone molto più disponibile.
Sì, davvero una pacchia. Poca gelosia, molta solidarietà e crescente adesione politica. Giusto qualche scazzo isolato perché lui è un po' più vecchio e più stalinista rispetto ai suoi pards un tantinello indisciplinati e anarcoidi, indubbiamente poco soggetti alla disciplina e alle gerarchie da sezione.
Un pezzo per uno, ma molte volte anche in coro, oramai la fama dei giovani poetastri s'è allargata e li vengono a sentire anche i Loi, i Pontecorvo, i Grieco, le Mazzetti, le Ottolenghi, oltre a molti esperti e giornalisti che cominciano ad esercitare le loro penne sulla "Nuova Canzone" del Folkstudio.
E a proposito di giornalisti, succede che Davide Grieco, il giovane figlio di Bruno, debba andare una sera a sentirli per conto dell' Unità. Succede anche che si senta poco bene e dia buca ai tre che ormai già gustavano il frizzo del primo articolo importante. Ma niente paura: Tinin, il mattino dopo, chiama Davide al telefono e gli "passa" il pezzo, raccontandogli per filo e per segno canzoni, pubblico, reazioni in sala.
Due giorni, dopo sulla pagina romana, esce finalmente l'oggetto del desiderio e Tinin corre al Folk per gioire insieme agli amici e per ottenere merito ed encomio per un'operazione accorta.
De Gregori è invece su tutte le furie; non lo saluta e quasi gli mette le mani addosso: che diavolo è successo, ora? Che il povero amico critico musicale, un po' rincoglionito per esser stato svegliato di mattino presto, un po' ingarbugliato tra letto, taccuino e linea telefonica disturbata, ha sbagliato a trascrivere un titolo - forse il più importante per Francesco - e Signor aquilone è diventato... La signora Piloni!
Sempre più gente, insomma, comincia a conoscere, analizzandole, quelle ballate che loro forse non avrebbero mai pensato un giorno di incidere. Hanno l'onore di apparire in tivvù in un programma etnomusicologico di Berio e della Ottolenghi che, accostandoli in una puntata nientemeno che a Dylan, fa parlare lo studioso Alan Lomax della canzone popolare nel mondo.
Fanno poi un'altra conoscenza Rai e sono ospiti alla radio, di Giaccio e Cascone, per una puntata dal vivo del programma "Per voi giovani". Ecco le prime trasferte con i Folkstudio Singers, Mario Schiano, Giovanna Marinuzzi, le due bionde sorelle di Lou Castel delle quali una canta e l'altra fa l'attrice, Giovanni Crisostomo e tutti gli altri protagonisti di quei giorni. Notevoli le esperienze a Foggia, a Napoli e alla reggia di Caserta.
Per Napoli partono in quattro con chitarre fra i denti, sotto le ascelle e su per il naso, sul Maggiolone di Antonello.
Salgono al Vomero per esibirsi al Teatro Instabile che ha come organizzatore culturale l'amico Michelangelo Romano, futuro produttore di Sorrenti e Vecchioni: e un posto molto "in", frequentato da turbe di rivoluzionari da salotto con la erre moscia come quella che faceva Totò nei suoi ruoli da nobile. Una serata al fulmicotone perché il pianoforte per Antonello non c'è e lui, buono sì ma incazzato come Hitler, deve accettare d'essere accompagnato dai tre pards con le loro tre chitarrelle, standosene in piedi di fronte al pubblico e soffrendo come Linus senza la coperta.
Accordi sbagliati, polemiche, quasi lite e, sotto di loro, un pubblico che rumoreggia maleducatamente.
"Ma questi qua non cantano canzoni di lotta, queste sono le solite canzonette bovghesi, pev di più piene di metafove e pavoloni... ma cantateci Contessa, pev favove, fate i bvavi..."
Finisce malissimo, tranne che per Tinin che, nonostante la rissa ideologica, almeno viene rimorchiato per la notte dalla più animosa, matura e piacente delle nobildonne compagne.
Ha così la fortuna di conoscere dall'interno, per una notte eduardiana, un mondo partenopeo che sino ad allora aveva visto solo al cinema: un mondo fatto di odori di muffa, parati scollati, servitù complice, nonne centenarie con la papalina, da scavalcare dormienti per andare al cesso di notte, e cornetti caldi e latte nei bricchi d'argento massicci la mattina "presto", alle undici!
RENZO
ZENOBI
da
renzozenobi.it
Il Folkstudio era un locale dove si faceva musica. La prima collocazione era in via Garibaldi ed è là che venne anche Bob Dylan. Renzo lo conobbe tramite Francesco De Gregori che invece lo frequentava precedentemente, quando era già stato trasferito in via Sacchi. Era composto da due ambienti principali: il primo era il bar al quale si accedeva, dopo le scale, dalla biglietteria ed il secondo era la sala da concerto dove si entrava dal bar attraverso una tenda. Questa sala aveva un palco di legno alto 40/50 cm posto contro la parete di fondo e di fronte, così come sul lato destro, vi erano file di sgabelli di legno scomodissimi. Sul palco c'era una sedia alta tipo sgabello da bar di legno rosso sulla quale ci si appollaiava e si cercava di tirare fuori il meglio dei nostri accordi e delle nostre anime. Prima che si cominciasse a suonare e durante l'intervallo si ascoltava in tutti gli ambienti un disco jazz massacrato, sempre lo stesso. Dimenticavo: si cantava senza amplificazione. Il Folkstudio era un' invenzione di Giancarlo Cesaroni (oggi purtroppo non più tra noi), molto simpatico ma anche molto temuto da Renzo per i suoi giudizi alla fine di ogni esibizione. La sua compagna faceva i biglietti alla cassa (ciao, Gabriella) e a volte si scendeva solo per fare quattro chiacchiere con loro e bere qualcosa insieme. Era anche un punto di ritrovo, a volte ci si passava dopo cena, si vedeva chi c'era, ci si scambiava qualche novità e si andava via. Dal Folkstudio sono passati un pò tutti, famosi e meno famosi, fra gli altri Venditti, De Gregori, Luigi Grechi, Locasciulli, Lo Cascio, Stefano Rosso, Gianni Togni, Dodi Moscati, Giovanna Marini e poi quelli che venivano da fuori Roma come Dalla, Guccini e mille altri. Il sabato pomeriggio era open, cioè andavi da Giancarlo, gli davi il nome e cognome e, se c'era spazio, ti diceva "canti per quarto" e a quel punto avevi un pubblico pronto a batterti le mani, oppure no.
E sì, il Folkstudio era incredibile, ce ne siamo accorti ancora di più quando, trasferito per sfratto in una traversa di via degli Annibaldi, cominciò a declinare. Ma gli anni che Renzo ricorda sono stati veramente formidabili e spera che queste poche righe abbiano dato l'idea di ciò che abbiamo vissuto.
SERGIO
CAPUTO
dal sito
Solegemello
Il Folk Studio era una cantina umida e puzzolente situata sotto un palazzo nel cuore di Trastevere (Roma). Le pareti erano insonorizzate con sacchi di iuta, c'era un piccolo bar con tre o quattro bottiglie, e la sala vera e propria era uno stanzone, in un angolo del quale c'era una pedana alta dieci centimetri, il palco. Da questa postazione precaria è partita gran parte della canzone d'autore italiana che oggi ascoltiamo. Sarebbe troppo lungo elencare i nomi, oggi illustri, che hanno iniziato proprio in quella topaia a far sentire la propria voce, ma si dice che perfino un non ancora famoso Robert Zimmerman (Bob Dylan), di passaggio a Roma, vi fece un'apparizione cui assistettero una trentina di persone. Il Folk Studio ha chiuso i battenti da molti anni.
Negli anni settanta, al Folk Studio, c'erano tre personaggi emergenti che si esibivano abbastanza regolarmente: Venditti, De Gregori e Bassignano. Di questo terzetto giornalisti e pubblico di allora erano disposti a giurare che sarebbe stato proprio Bassignano a "sfondare". Sappiamo tutti, oggi, che le cose andarono diversamente. Perchè Bassignano non sfondò? Azzarderò un'analisi rigorosamente personale: Bassignano aveva un talento formidabile per farsi dei nemici. Bassignano era (dovrei dire è perchè è vivo e vegeto, ma spero che gli anni lo abbiano "ammorbidito") una delle persone più difficili con cui si potesse avere a che fare.
Antidivo, critico su tutto e su tutti al punto che perfino i suoi colleghi temevano la sua lingua tagliente, aveva un fiuto infallibile nell'identificare e denunciare il benchè minimo cedimento al "frivolo"... Insomma, un autentico rompiscatole.
Inoltre Ernesto aveva il vizietto di corteggiare (spesso con successo) le donne di amici e nemici senza distinzioni ne' riguardo, e questa è la cosa che più di tutte fece infuriare parecchia gente "importante".
Come se non bastasse, invece di raccogliere il successo che sicuramente riscuoteva e meritava, e frequentare salotti cultural-chic, nei quali era peraltro richiestissimo per le sue doti di caustico intrattenitore, saliva da solo sulla sua macchina scassata e andava a fare concerti sul cocuzzolo di una montagna per i contadini, o nelle fabbriche più remote, concerti dai quali il più delle volte tornava senza neanche il "politicamente corretto" rimborso spese.
Oggi Ernesto fa il giornalista free lance, per testate e anche per programmi radiofonici.
DE
ANDRE’ – DE GREGORI
da
http://www.jamonline.it/album/albumitaliani.htm#deandre
Trastevere come il Greenwich Village. Il Folkstudio come il Gerde’s Folk City. Giancarlo Cesaroni, fondatore del Folkstudio, come Mike Porco, l’uomo che gestiva il club newyorkese e che diede più di una chance al giovane Bob Dylan. Francesco De Gregori come Bob Dylan, allora? Non proprio, naturalmente, ma è certo che il giovane cantautore romano muove i primi passi in un’atmosfera che ricorda quella in cui mosse i primi passi Dylan. E quanto De Gregori abbia assorbito, musicalmente e stilisticamente, dal cantautore americano è cosa nota ormai a tutti.
Certo è che il Folkstudio, tra la fine degli anni Sessanta e i primi Settanta, era un luogo unico, in Italia (in cui, peraltro, come narrano le leggende, si sarebbe esibito, nel ‘62, un ancor sconosciuto Bob Dylan, di passaggio in Italia sulle tracce della fidanzata). Un piccolo e buio scantinato, dove si sarebbe allevata una generazione di cantautori destinata a cambiare le regole della canzone d’autore italiana nel corso degli anni Settanta, passati alla storia come «quelli della scuola romana».
Fra i tanti, furono due i nomi che avrebbero lasciato il segno più profondo, quelli di Antonello Venditti e Francesco De Gregori. Che non a caso avevano esordito con un disco «in comproprietà», quel Theorius Campus uscito nel 1972. Dopo di questo disco le strade si erano divise: Venditti con la sua visione personale, maggiormente tendente al pop, De Gregori sempre più innamorato del songwriting di stampo nordamericano.
Prima di Rimmel c’era stato l’acclamato Alice non lo sa (1973), che conteneva l’omonima title-track di grande successo commerciale, grazie anche a quel tema (allora) scabroso, quello di un matrimonio celebrato all’insegna della verginità perduta e di una non chiara paternità.
Poi c’era stato il bellissimo disco che portava solo il suo nome e cognome, chiamato anche «il disco della pecora» per via del dipinto in copertina: un disco spartano, essenzialmente acustico. Un disco che conteneva una galleria di immagini desolate e allucinate, in perfetto stile dylaniano (ma non quello del menestrello di protesta, piuttosto quello del rocker anfetaminico e devastato di Blonde On Blonde) e anche alcune delle canzoni più belle mai composte dal musicista romano.
Nello stesso periodo De Gregori è però invitato da un personaggio straordinario, Fabrizio De André, che gli chiede una mano per il suo nuovo disco. L’avventura con De Gregori non sembra funzionare in modo ottimale: il risultato è l’album Volume VIII, uno dei meno apprezzati del cantautore genovese, in cui è però evidente in molti brani l’impronta visionaria di De Gregori ma che soprattutto contiene una traduzione italiana di Desolation Row, dal songbook dylaniano, che diventa Via della povertà, un apprezzabilissimo lavoro di riadattamento interamente curato da De Gregori («È stata la prima canzone di Dylan che mi ha colpito, da ragazzino. Allora non c’erano ancora libri con le traduzioni dei suoi testi e passavo ore e ore a cercare di capirne il testo. In quel periodo avevo una necessità ’’biologica’’ di impratichirmi con certe regole tecniche per scrivere una canzone, quindi anche tradurre mi serviva»).
De André sperava in un apporto maggiore per il suo disco, ma evidentemente De Gregori stava ancora maturando le splendide composizioni che di lì a poco sarebbero finite su Rimmel.
GIORGIO
LO CASCIO
Flash 1 - da “De
Gregori” di Giorgio Lo Cascio – Muzzio Editore – 1990 (ritagli)
Il suo stesso nome lo definisce: al di là del Tevere. Fisicamente separato perciò dal cuore della vita antica, dal palazzi del potere, dai caffè lussuosi e dalle misteriose chiese. Ma per me significava al di qua del Tevere, perché la mia abitazione si trovava lungo l'antica via Aurelia.
Per cinque anni vissi ai margini di questa moderna Suburra. Il mio liceo era infatti come una rocca posata sul ciglio del Monte Verde, che assieme al Gianicolo limita e contiene il ribollire della fantasia che in questo quartiere scaturisce. Per cinque lunghi anni percorsi la via Aurelia cintata di alte mura come se fosse un canale, approdando alla quiete dei miei studi, sul ciglio dell'adolescenza.
Finché una sera presi coraggio e, oltrepassando le mie colonne d'Ercole, imboccai la via Garibaldí, che dal Fontanone scende come un serpente verso la riva destra del fìume. Fu così che trovai una cantina lunga e stretta, profumata di muffa. In fondo a quella cantina un palco di legno verniciato di rosso con una seggiola di forma assolutamente particolare, anch'essa verniciata di rosso. E su quella seggiola un ragazzo di diciotto anni, con una chitarra Eko in mano, che cantava: "Era mattina presto / bruciava la foresta / La scimmia scese a terra / e si montò la testa / le si ingrossò il cervello / e cominciò a pensare / Signore Iddio del cielo / che cosa mi fai fare?! ". Il Folkstudio stava attraversando la sua seconda era.
Harold, ligio ai principi dello show business noti solo a lui su tutto il territorio della nostra amata Repubblica, conduceva le serate con un susseguirsi vorticoso di artisti girovaghi di tutti i tipi, e molti di essi erano destinati a fare parlare di sé in tutto il mondo. Venne Ravi Shankar, Pete Seeger, Gato Barbieri, e persino un giovane taciturno e scuro che inseguiva una fanciulla dell'alta borghesia fuggita dagli States per non vederlo più (almeno così raccontano i suoi biografi) e che forse non aveva ancora deciso di scegliere per sé il nome di Bob Dylan.
Gli spettacoli dovevano essere davvero interessanti e divertenti tanto che attirarono anche gli strati "bene" della società romana, e fecero così la loro comparsa le signore con la pelliccia e con i gioielli, che disertavano i grandi teatri o i varietà al Sistina per vivere qualche emozione bohèmienne insaporita dalla sangria, profumata di muffa, resa piccante dalla silenziosa e ostile disapprovazione dei loro accompagnatori.
Su tutti gli artisti presenti in quel periodo giganteggiavano i Folkstudio Singers, quattro americani neri e scatenati: Archie Savage, Billie Ward, i fratelli Hawkins. Quando Archie spalancava su di noi le sue grandi mani nere le pareti della piccola cantina svanivano e ci trovavamo tutti insieme immersi negli sconfinati campi di cotone del Sud, sulle rive del Mississippi accarezzati dal tepore del tempo d'estate. Quando Archie ritmava il tempo con il piede ci trovavamo d'improvviso tutti al galoppo insieme allo sceriffo che inseguiva il povero Toni Dooley per impiccarlo. Quando Billie Ward faceva vibrare le lunghe corde del suo contrabbasso, vibravano in noi la gioia e il dolore di un intero popolo che appassionatamente e disperatamente ama la vita.
Ma anche gli altri artisti non erano certamente da meno: Albalu, Juan Capra, Sebastiao e José Mariano cantavano la passionalità latina dei loro Paesi del Sud America; Los Condores erano i primi in Italia a evocare i suoni misteriosi delle più antiche civiltà andine; John Jim and Tina con la loro musica creativa; Jimi Longhi con la prima vera chitarra di plastica e la sua voce nasale folk. Un posto d'onore era riservato al jazz. Non solo vaudeville e jazz caldo, ma anche il ben più impegnativo free jazz. Volete alcuni nomi prestigiosi? Che ne dite di Mario Schiano, Carlo Loffredo, Marcello Melis, Steve Lacy, Lee Konitz, Don Moye, Gato Barbieri?
lo ascoltavo rapito, ma ciò che mi entusiasmava di più era la scoperta dell'esistenza di artisti italiani.
In quel periodo io andavo matto per il folk americano: per Peter Paul and Mary, Woody Guthrie, Bob Dylan e Joan Baez. Una sera vidi alla televisione un programma sulla contestazione giovanile negli States. Vi erano diverse canzoni di Joan Baez e a un certo momento fu inquadrato in studio un ragazzo che eseguì un brano strumentale. Potete bene immaginate quanto fui eccitato quando la sera successiva lo incontrai al Folkstudio. Cantò alcuni classici quali Banks of the Ohio, eseguì alcune splendide canzoni di Paul Simon, e cantò una tristissima canzone in italiano, Buonanotte Nina, che mi piacque moltissimo. lo conobbi solo il suo nome di battaglia, Ludwig, e cercai subito di fare la sua conoscenza incontrando qualche difficoltà a causa della sua allora schiacciante superiorità nella capacità di assimilare bevande pesantemente alcooliche. Gli dissi che la canzone in italiano mi era piaciuta moltissimo, e gli chiesi se l'avesse scritta lui. Mi rispose che era stata scritta dal suo fratellino minore, e che avrei potuto ascoltarlo presto al Folkstudio se lo avessi desiderato. E così feci. Ecco dunque il giovane De Gregori, con la chitarra in braccio seduto sulla seggiola folk!
Francesco su questa seggiola assumeva una posizione un po' anomala, e ciò in virtù della sua altezza lievemente superiore alla media, che il geniale fabbricante della seggiola non poteva in alcun modo prevedere. Le sue ginocchia erano pertanto un po' più alte del normale e l'insieme dava l'impressione che egli fosse quasi appollaiato. Il secondo elemento di maggior rilievo era la pettinatura di Francesco: portava i folti capelli tagliati alla paggio.
Ben altro discorso va fatto su ciò che quella longilinea figura produceva sotto forma di musica e parole, cioè di canzoni. Tutti i suoi testi erano estremamente graffianti. Già allora era nemico mortale della banalità, delle ideologie, della tracotanza, dell'aridità. E ogni sua canzone celebrava questo scontro titanico con le armi sempre inossidabili dell’introspezione, della osservazione disincantata del prossimo, della ragione e del sentimento. Sono quasi spaventato da quanto ho appena scritto, ma sottoponendo questi miei ultimi concetti al vaglio delle armi che ho appena descritto, non posso che scuotere la testa e confermare la mia deposizione. Forse a Francesco mancavano l'istintività del cacciatore, l'onestà contorta del maudit, dell'artista maledetto, il grido a gola spiegata del conquistatore, la caparbietà perseguitata del precursore. Ma tutto ciò, se eccelso in altri, avrebbe veramente stonato in Francesco, sarebbe stato davvero troppo, e Francesco andava molto più che bene così com'era. Prima che io vi illustri i contenuti delle canzoni che cantava a quei tempi, è necessario che questo mio spudorato panegirico attiri la vostra attenzione su alcune importantissime caratteristiche tecniche del De Gregori. Innanzitutto possedeva un formidabile bagaglio linguistico: un vocabolario ricchissimo che gli consentiva di scrivere addirittura in rima con la massima disinvoltura, cosa estremamente difficile.
La prima canzone, di cui vi ho già parlato, si chiamava Buonanotte Nina ed era la lettera di addio di uno straccione che saluta la bella e ricca innamorata testimoniando la propria inadeguatezza per un futuro bello e ricco che comunque le augura al fìanco di un altro.
Fino ad allora le più belle canzoni d'oltralpe venivano italianizzate in due modi solamente: come facevano i complessini degli anni '60, e cioè cambiando completamente il testo e inserendo insulse storie d'amore al posto degli argomenti spesso ben più impegnativi affrontati dagli autori originali, oppure cercando di rispettare l'originale stiracchiando, comprimendo o mutilando la nostra sacra lingua nel tentativo di ottenere una pallida traduzione letterale, così come migliaia di anni fa era solito fare il buon Procuste con gli sventurati ospiti della sua locanda. Ma Francesco, novello Teseo, spazzò via tutta questa gentaglia affrontando traduzioni molto impegnative di Bob Dylan e di altri autori folk.
Il segreto delle sue traduzioni consisteva non soltanto nella ricchezza e nella padronanza del linguaggio, che gli consentiva di reperire i vocaboli più adatti, ma anche nel fatto di essere in grado di inserire immagini differenti, qualora l'originale fosse intraducibile, ottenendo un risultato sicuramente accettabile e mantenendo rigorosamente inalterato lo spirito, l'atmosfera, e il significato del testo originale.
Leonard Cohen. La sua scoperta fu un merito interamente attribuibile a Ludwig, il quale tornò da uno dei suoi viaggi scellerati portando con sé un paio di dischi del cantautore canadese.
I suoi personaggi discreti affollavano la nostra fantasia molto più di quanto non potessero fare i personaggi delle canzoni di Dylan: Suzanne con la sua quieta e misteriosa consapevolezza e le sue altrettanto misteriose offerte erotiche; Marianne amata e perduta insieme a se stessa; Giovanna d'Arco, accarezzata una volta sola dal suo amante di fuoco; Isacco, che all'ombra del pugnale del padre perdette in un colpo solo ogni illusione sulla giovinezza, su Dio, sull'umanità. E tanti altri ancora. Francesco si accostò a questo materiale con la flemma di un luccio che si getta sull'esca, e produsse una serie di traduzioni veramente magnifiche.
Chi ascoltava queste canzoni al Folkstudio non immaginava che fossero state scritte da un canadese, credeva che fossero di Francesco, e riteneva di essere di fronte a un genio. Pensate! Erano davvero di fronte a un genio ma non sapevano di non sapere il perché!
A questo punto fanno il proprio ingresso nella nostra storia due personaggi che meritano qualche parola in più: il primo di essi si presentò una sera con un montgomery chiaro di pecora, con un paio di jeans ed enormi scarpe di para. Aveva tra le mani un pezzo di carta sul quale aveva appena scritto il testo di una canzone. Fu invitato ad accomodarsi al pianoforte, e dopo pochi minuti eravamo tutti immobili con la mascella spalancata in modo poco dignitoso. Un applauso per l'ingresso di Antonello Venditti, prego! Il secondo entrò nel Folkstudio di soppiatto, come una mandria di bisonti assetati, ed ebbe premura di chiarificarci immediatamente la qualità del suo impegno politico nelle fila del PCI e lo spessore delle sue composizioni cariche di denunce sociali.
Come potete intuire il destino stava già mescolando le sue carte e preparando un poker dalle caratteristiche uniche: la sapienza di Francesco, le mie lagne, la voce di Antonello, l'esuberanza di Emesto Bassignano.
Un bel giorno Cesaroni ricevette l'incarico di organizzare uno spettacolo "all stars of Folkstudio" per il Circolo Daunia di Foggia, un ritrovo estremamente esclusivo e lussuoso. Venne pertanto noleggiato un pullman intero che fu stipato con tutti gli artisti presenti al momento: Archie Savage, Mario Schiano, i Blue Moming (Maurizio Giammarco, Roberto Ciotti e Alfredo Minotti), l'ottimo esecutore di fiamenco Giovanni Crisostomo, la giovanissima Giovanna Marinuzzi, presentata come Joanna Perez, Susan Castel, sorella di Lou Castel e impegnata nella battaglia per la diffusione dell'esperanto, e infine i nostri eroi: Francesco De Gregori, Antonello Venditti, Emesto Bassignano e io.
Trascinati dall'irruenza di Archie tutti noi riuscimmo a esprimere il meglio di noi stessi. Assestammo un colpo mortale alle riserve di vino pregiato del Circolo, e durante tutta la notte per i corridoi dell'albergo echeggiarono scalpiccii veloci e risate.
Forse il buon Cesaroni rimase favorevolmente impressionato dalla nostra performance in quell'occasione. Comunque sia, decise che i suoi passerotti avevano messo le ali e che era giunto il tempo di spingerli fuori dal nido.
Pertanto decise di costituire un gruppo di giovani promesse, di assegnare loro il nome di “I Giovani del Folk”, forse evocando le glorie passate dei Folkstudio Singers, e di gettarli sulla piazza.
Non che noi avessimo le idee molto chiare su cosa volesse dire "montare uno spettacolo": avevamo cantato spesso insieme eseguendo un brano o due a turno, cosi come l'ispirazione del momento ci suggeriva di fare. Evidentemente consapevole delle nostre perplessità, Giancarlo ci propose di chiedere una mano al grande Archie Savage, e la cosa ci sembrò un'ottima idea. Archie naturalmente accettò immediatamente. Ci raggiunse un pomeriggio, arrivando puntualissimo come tutti gli americani, accompagnato da un giovane che a me sembrava un po’ effeminato. Si mise subito al lavoro, e ci spiegò che la prima cosa da fare era quella di stabilire la posizione che avremmo dovuto assumere sul palco. Disse infatti che dovevamo noi stessi costituire una specie di scenografia, visto che le nostre persone e i nostri strumenti erano gli unici elementi scenografìci a disposizione. Dato che Antonello doveva suonare il pianoforte, la sua posizione era automaticamente decisa; accanto ad Antonello anch'io avrei preso posto su una sedia; Francesco avrebbe utilizzato la seggiola folk, delle cui caratteristiche ho già ampiamente parlato, e il Bassignano avrebbe svettato in piedi, creando così un insieme mosso e dinamico. Stabilito questo primo punto, ci disse che era estremamente importante il primo impatto con il pubblico: dovevamo individuare una specie di sigla di apertura, e utilizzare qualche trucchetto per stupire e interessare il pubblico.
Dopo aver esaminato assieme il problema decidemmo di assumere come sigla una versione di Tapum, vecchia e gloriosa canzone alpina, rivista e vivificata da Venditti. Antonello sarebbe salito per primo sul palco, con il suo inseparabile montgomery tipo pecora, e dopo aver distrattamente sfiorato un tasto del pianoforte per centrare l'intonazione giusta, con lentezza, in modo da indurre il pubblico a chiedersi cosa mai stesse macchinando, avrebbe raggiunto il centro del palco e avrebbe iniziato a cantare da solo la prima strofa senza accompagnamento musicale, confidando nella sua voce forte e limpida. A ogni strofa uno di noi si sarebbe aggiunto al coro, con voce e chitarra, sbucando inaspettato da un punto diverso del piccolo locale, fino all'apoteosi finale nella quale tutti insieme avremmo entusiasmato il pubblico cantando a squarciagola.
Venne la sera del primo concerto: tutti i giornali annunciavano nel tamburino dedicato a Folkstudio i Giovani del Folk, e il pensiero di essere comparsi per la prima volta sul giornale mi eccitava immensamente. Il pubblico era quello delle grandi sere: superiore alle venti unità. E parve gradire le nostre canzoni, accettare con piacere le personalità molto diverse, dei quattro artisti (pensate: artisti!) e apprezzare trucchi scenici inventati da Archie. Non ricordo assolutamente i discorsi fatti più tardi nella pizzeria da Ivo a Trastevere, e ciò a causa del comprensibile stato di ubriachezza nel quale dovevo trovarmi, ma sono certo che furono molto, molto allegri.
Il nostro spettacolo infatti era costruito con l'avvicendarsi di noi quattro, ognuno dei quali suonava da solo le proprie cose. Ben più impegnativa e affascinante appariva la possibilità di eseguire in due i nostri brani: doppie voci, due chitarre. I più smaliziati di voi penseranno immediatamente con un sorrisetto: Simon & Garfunkel, vero? Ebbene, questi sciocchi individui sono esattamente nel giusto: è proprio ciò a cui pensavamo. Si trattava di due dei nostri idoli, e ridevamo constatando che Paul Simon scriveva le canzoni, cantava, suonava la chitarra, e ci chiedevamo cosa ci stesse a fare Garfunkel. Poi un giorno ci capitò di sentir cantare Garfunkel da solo, e finalmente capimmo.
In particolare era per noi fonte di grande soddisfazione l'arrangiamento di Via della Povertà, cioè Desolation row di Dylan, nel quale io, grazie ai miei anni di studi classici, riuscivo a riprodurre i contrappunti geniali di chitarra folk trascritti durante notti insonni passate accanto al giradischi. Con Cohen, poi, riuscivamo a esprimere il massimo, perché con la sua struttura melodica molto lineare il canto per terze risultava molto riuscito. Un giomo accadde che, mentre stavamo ridendo, scolando bottiglie, provando canzoni, Francesco mi mostrò un testo che aveva scritto senza mai trovare una musica adatta. Si trattava de La casa del pazzo, e mi piacque moltissimo.
Scegliemmo per noi il nome di "Francesco e Giorgio" dato che l'uso dei cognomi risultava decisamente più improponibile: "De Gregori e Lo Cascio", sempre in rigoroso ordine alfabetico, e non certo di importanza. Solo una volta mi capitò di vedere pubblicizzato un programma con un titolo più esilarante di quello che avevamo saggiamente deciso di non adottare: fu quando in un paese della Sicilia mi trovai a suonare con altri due ottimi amici, e la cosa forzatamente venne così annunciata: «Stasera grande concerto con Lo Cascio, Locasciulli e Scascitelli». Anche allo speaker dei megafoni sarebbe scappato da ridere se non si fosse trattato di un comunista assolutamente ortodosso e quindi privo di qualsiasi senso dell'umorismo.
Flash 2 - da
un’intervista rilasciata a Nicholas Albanese
Nel 1960, a Roma a Trastevere, è nato un locale che si chiamava Folkstudio, dove un piccolo gruppo di amici si ritrovava per suonare e per cantare. Era lì che quel gruppetto di italiani e stranieri coltivava la propria passione per la musica di generi nuovi e poco conosciuti a quei tempi: rock, blues, soul, jazz, country e canzoni folk. L'americano Harold Bradley fu uno dei fondatori del Folkstudio; dirigeva le serate di musica per un pubblico sempre crescente ed entusiastico. Musicisti di tutto il mondo venivano per dare il loro contribuito: Pete Seeger, Ravi Shankar, Gato Barbieri e persino un giovane americano, Robert Allen Zimmerman, che sarà conosciuto più tardi come Bob Dylan. Da un punto di vista musicale, gli anni Sessanta, anche grazie a questo ambiente, sono stati un momento particolarmente fertile.
Harold Bradley, successivamente, ha lasciato lo studio, e la gestione è stata affidata a Giancarlo Cesaroni (morto nel gennaio del 1998), un altro dei pionieri del Folkstudio. Gli artisti continuavano a venire: dagli americani neri che cantavano gli spirituals, ai musicisti sudamericani, come Juan Capra, Sebastiao e José Mariano. Cesaroni non soltanto credeva nella musica come genere di intrattenimento e come forma d'arte, ma anche come forma d'espressione sociale. Reclutava musicisti che avevano qualcosa importante da dire, molti dei quali erano giovani italiani che componevano canzoni politiche, sociali e di protesta mondiale della canzone negli anni Sessanta. Noteremo infatti che essa era caratterizzata dalla fiorente musica folk americana. La canzone americana aveva assunto un ruolo diverso nella società rispetto al passato: era diventata l'espressione di comportamenti incentrati sulla protesta sociale. Era quello un periodo di forte tensione sociale, sia in America che nel mondo, aggravatasi dopo l'assassino di figure carismatiche e "rivoluzionarie" come John F. Kennedy nel 1963, Martin Luther King, Jr. e Robert F. Kennedy nel 1968, e con il crescente coinvolgimento americano nel conflitto del Vietnam. La lotta per i diritti civili in America ha raggiunto il culmine in seguito ad alcuni episodi di violenza, trasmessi per televisione, la quale aveva ormai acquistato un posto d'onore in ogni famiglia americana. Una delle voci di protesta più potenti ed efficaci, per i giovani, era rappresentata dalla musica, che in quegli anni si era trasformato da semplice svago a importante arma di espressione culturale e sociale. Come afferma Radtke: “La contestazione giovanile è strettamente legata all'espressione musicale che funge da elemento di solidarietà”. Artisti folk come Bob Dylan, Peter, Paul and Mary, Woody Guthrie e Joan Baez sono venuti alla ribalta con loro canzoni, che rispecchiavano l'irrequietudine e l'agitazione di cui era pervasa la società in quel decennio.
“Antonello fece la sua comparsa un pomeriggio con un montgomery tipo pecora che lo ha accompagnato per molti anni. Aveva in mano un pezzaccio di carta con il testo di una canzone(….): era “Sora Rosa”, e a noi piacque molto. Antonello suonava il piano in un modo che non avevo mai sentito e aveva una voce veramente eccezionale.
Ci fu tutto il tempo di imparare i suoi testi, perché aveva solo tre canzoni, più “Roma Capoccia”, di cui però si vergognava non ritenendola abbastanza impegnata e che quindi non cantava, e per molto tempo suonò soltanto quelle…”,
Adesso questi locali non esistono più. Il Folkstudio, con la morte di Cesaroni, che è stata pochi mesi fa, è chiuso. E' quello è l'ultimo locale rimasto. Tutti i locali oggi danno da mangiare, fanno musica di trattenimento. Puoi anche andare a fare la musica impegnata, ma la farai sempre mentre la gente mangia, chiacchiera e beve la birra. Non è più come quando nei locali invece si andava là e si sentiva la musica. Questo non c'è più. Quindi ci sono oggi delle difficoltà maggiori da tutti i punti di vista. Insomma, è stato un periodo, è un ciclo adesso, sta ritornando... condizioni difficili. L'artista dovrà faticare molto per riemergere mentre indubbiamente nel Settanta ci sono stati gli artisti che sono stati facilitati. Io stesso ho avuto facilità a fare delle cose che oggi non mi farebbe fare nessuno. E tantissimi altri.
Il Folkstudio è nato perché è arrivato Harold Bradley, e quindi lui ha cominciato ad animare. C'era questo giro di studenti americani che si davano da fare, avevano voglia di divertirsi, di fare cose interessanti e importanti. Intorno a lui si è creato questo gruppo di amici, e quindi hanno cominciato a fare questa musica. Poi ci sono degli italiani che l'hanno portata avanti - Cesaroni, i suoi amici - che l'hanno fatta vivere.
CLAUDIO
LOLLI
dal sito
“Brigata Lolli”
“Folkstudio”, dall’album “Dalla parte del torto” (2000), dedicata a Giancarlo Cesaroni.
E poi del resto la gente nei bar vuole battere i piedi,
e scaldarsi di fiati e risate... col freddo che c'è
e la musica è carta da zucchero in mani bruciate
a scandirsi un bel tempo di vita che vita non è
Ed è chiaro che i giorni che passano, lasciano il segno
nelle tasche nei pugni nei sogni, negli occhi che ho.
poi m'incanto, mi fermo e magari m'invento un disegno
carta verde, lontana, gonfiata da un vento del sud
E' lontano quel fiato di mare e sei lontano anche tu
e non è proprio questione d'amore, è qualcosa di più.
E' qualcosa che rompe le tasche senza fare din din
una musica sciocca che esce da un bel telefilm
respirare nel cielo del mondo e non poterlo toccare
l'allegria è un pallone rotondo che non sa dove andare
E del resto la gente alla fine vuole muovere i piedi
e scalare montagne davvero più alte di te
che rimani col fiato di vino a soffiare vetrate
la tua musica un soldo di zucchero che aspetta un caffé
C'è di nuovo la luna nel cielo, forse è la TV
non è proprio questione d'amore, è qualcosa di più.
PINOMARINO
da pinomarino.it
Con il vespone e un'imbracatura di cinte sulla schiena per la chitarra, Pinomarino andrà a suonare dall'88 al Folkstudio di Giancarlo Cesaroni, prima in via Sacchi e poi in via Frangipane, l'ultima sede.
Anche se sulla coda della sua attività e sulle forze residue di Giancarlo Cesaroni, per gli autori di canzoni il Folkstudio rappresenta ancora nei primi anni novanta, l'ineguagliabile e benedetta possibilità di suonare.
Il palchetto di tavole rosse, il seggiolone rosso, il pianoforte verticale preso in affitto e riconsegnato a fine stagione distrutto dall'umidità, le preghiere rivolte all'ignoto pubblico pagante affinchè giungesse in numero sufficiente per il comincio delle serate, il bancone alcolici e analcolici volutamente deserto e utile esclusivamente al sostegno dei gomiti durante le discussioni al bar e le partite a scopetta, quindi l'impossibilità di mangiare e bere se non di sottobanco dalla bottiglia personale di whisky del Cesaroni… di questo e di altro, ora che l'integralista assenza, così come integralista fu la presenza del Boss e del suo Folkstudio, ha lasciato una possibile traccia solo nelle persone, si può dire che chi ne ha goduto ha il privilegio di onorare oggi il privilegio avuto, continuando, con quello spirito, sempre.
STEFANO
ROSSO
dal sito
http://digilander.libero.it/gianni61dgl/stefanorosso.htm
Un "personaggio" atipico nel panorama della canzone d'autore italiano. Cantautore? Strumentista? Difficile definirlo. Canta con la erre moscia canzoni ironiche ma anche autobiografiche. Nelle sue canzoni si parla della nostra Italia ma anche di America, di rapporti con le donne ma anche di se stessi, a volte con amenità, sempre con l’arguzia da trasteverino puro. Stefano Rosso suona inoltre la chitarra da consumato strumentista, in perfetto stile finger-picking. Negli ultimi tempi, è riuscito raramente a registrare dischi e la sua popolarità si è un pò ridotta, ma il pubblico che lo apprezza gli è da sempre fedele. Nella seconda metà degli anni Settanta ha avuto un momento di considerevole popolarità con Una storia disonesta, forse la prima canzone italiana in cui fa capolino lo spinello, che era un po’ il ritratto divertito del fricchettone post-sessantottino. Nato a Roma, vive a Trastevere, in via della Scala, che ha immortalato nella canzone autobiografica Letto 26. Il cognome, Rosso, è fittizio, il suo è il più comune d’Italia (Rossi), ma il suo modo di comporre è assai originale, ciò gli viene dal linguaggio e dalla prospettiva sbilenca, furtiva in cui si pone per osservare e vivere il quotidiano. Con una voce tranquilla e colloquiale, la erre moscia, l’intonazione da vecchio amico, romanesca e ciondolante al punto giusto, Stefano Rosso ha collezionato diversi album, forse con un pò di discontinuità, trovando però spunti saporiti sparsi con poca cura. La filosofia di vita, l’afflato esistenziale resta fuori dallo studio di registrazione, compare invece nelle sue canzoni una simpatia naturale, giocata sul realismo rapido, il lazzo è sempre pronto e la battuta a raffica. Predilige melodie semplici e strumenti che abbozzano invece di tagliare l’ambiente. Eppure si sorride ascoltando i suoi dischi, non solo masticando l’ironia spessa, ma cogliendo pure le parodie indecise tra il graffio velenoso e la dissacrazione in punta di piedi. Dopo Una storia disonesta e ... E allora senti cosa fo, che ottengono una buona affermazione commerciale, nel ‘79 incide Bioradiografie, l’ultimo album per la RCA, , che scatena la sua ira e il malcontento, perchè è praticamente boicottato dalla casa discografica. Nel 1980, partecipa al Festival di Sanremo con il brano L'italiano, contenuto nel disco Io e il signor Rosso, pubblicato da una nuova casa discografica, la Ciao record. Negli anni '80 incide cinque dischi, poco conosciuti, anche perchè mal distribuiti. Nel 1997, la sua nuova uscita discografica, Miracolo italiano, un'antologia contenente tre nuovi brani. Incide poi per la DV More Il meglio, che contiene i suoi maggiori successi, re-interpretati e alcuni nuovi brani. Contiene anche Preghiera, fino ad allora incisa soltanto da Mia Martini nel disco Che vuoi che sia... se t'ho aspettato tanto, del 1976.
FRANCESCO
GUCCINI
Da maggiesfarm.it
- Oh tu, vecchio Bob Dylan - di Francesco Guccini
Dice: "Non faresti un pezzetto su Dylan ? Potrebbe essere interessante e tutto il resto" dice "sai, uno che fa canzoni, che scrive su un altro che fa canzoni, uno che poi ha avuto tanto peso eccetera eccetera..." E io dico: "Perchè no?" e l'idea mi sembra buona, e anche in un certo senso divertente.
Si era più o meno in settembre, e a me piacciono i progetti a lunga scadenza, voglio dire che certe cose come idee lì per lì mi piacciono, ma spesso restano tali, nel senso che l'idea è buona ma poi mettiti lì alla macchina da scrivere a tirar fuori le cose da dire.
E poi non sono un critico; i dischi me li ascolto così, li metto su poi mi piacciono o no, parlo soprattutto dei testi, li ascolto e certi testi mi lasciano steso, e mi piacerebbe averle scritte io, quelle parole. Così ti rimangono dentro, te le rimescoli senza accorgerti di niente poi, anche dopo un anno magari, tiri fuori la tua, di canzone, non copiata, intendiamoci, ma c'è sempre qualcosa da imparare, e in questo senso Dylan per me è stato importante.
Ma una critica, o qualcosa di simile?! Sai, in giro c'è quella gente (bravi, voglio dire) che sanno anche di che colore era la camicia che portava nel concerto quello là di quell'anno, che corde montava sulla chitarra, perchè ha smesso di usare quelle, e giù giù fino a tutta la formazione del complesso in ordine alfabetico: Abbati, Abbondi, Accursi, Barigazzi, Bufalini...
Poi allora dischi da ascoltare non ne avevo; era già molto se riuscivo a mettere assieme le duecento per le Nazionali senza filtro, mica storie; il giradischi sì, un mono bestiale con una puntina da 350 kg. e non è che gli amici me li prestassero volentieri.
Così dico: "II pezzo lo faccio, ma in un altro senso, cioè diciamo cos'è stato Dylan, e lasciatemi sbrodolare addosso un po' di ricordi, che in quel senso a volte mi viene anche bene, e diciamo cos'è stato Dylan, ma soprattutto chi era che lo impersonava e cosa accadeva in quegli anni, a cominciare circa dal 1964".
E Bob Dylan, per me, era quel tale Joe Novitsky, che si faceva chiamare "Gringo" perche aveva fatto il corrispondente del N. Y .Times in Sud-America, dove credo sia ora a fare la stessa cosa; e pare che là lo chiamassero così.
"Gringo" girava con un paio di stivali da cow-boy estate e inverno; ma d'inverno ci metteva sopra anche giubboni di pelle e strani copricapi (ora non so se DAVVERO portasse strani copricapi, ma ne era il tipo, voglio dire ); girava spesso con una custodia nera e dentro c'era una Gibson, la prima che abbia mai visto, e la cosa, dico, la chitarra, era già un bel colpo, se la si paragonava alla mia, allora neanche Masetti, una Carmelo Catania tutta tenuta assieme dallo scotch nero perche avevo avuto la pessima idea di caderci sopra rientrando una sera.
Joe studiava allora alla Johns-Hopkins, e ci si incontrava al giovedì sera in un posto che si chiamava la "Grondaia"; lui suonava roba americana, io le mie canzoni d'allora, come Il 3 dicembre del '39, L' antisociale eccetera. E lo avrei ascoltato delle ore, per quel suo arpeggio maledetto che guardavo guardavo e non riuscivo a imparare. Gli avevo detto: "Insegnamelo" e lui me lo aveva anche insegnato, ma così, in fretta, è ovvio non ero riuscito a imparare niente.
"Ma che arpeggio è?" "Boh" diceva "è il travi's pick, o chiamalo come vuoi". "E questa canzone di chi è?". "Di Woody Guthrie". "E chi è Guthrie?". "Un vecchio folksinger, un hobo; è bravo, ora ai giovani piace Dylan, ma Dylan canta come lui, ha preso tutto da lui...", "Dylan, e chi è Dylan?", ma poi non mi interessava molto, chi era Dylan, mi interessava più quell'arpeggio, pollice, pollice, medio, pollice, medio, indice, pollice...
Poi Bob Dylan è, per me, quell'autostoppista americano di cui non ricordo il nome, solo che veniva da Palo Alto, California. Solo il nome, per me allora, una specie di mito, in cui entravano Steinbeck, la California e tutto il resto; i figli dei fiori, allora, di là da venire, almeno da noi.
Fu nello stesso anno, l'anno di Joe, più o meno il 1964 credo, ma la memoria dei vecchi spesso s'incasina. Palo Alto era sulla tangenziale, che faceva l'autostop, e Ludi mi era venuto a prendere quella domenica mattina verso le 11 perchè aveva scoperto quell'osteria deliziosa, dice, dove c'era, (appena fuori Bologna, due passi, ho la macchina qui giù), "un salame e un'albana che non te li devi proprio perdere".
Ma dico, hai presente l'ora, ma lui che era fatto così dice dài dài e andiamo e sulla tangenziale carichiamo questo tizio e ce lo portiamo dietro, (lui che voleva andare a Firenze), a mangiare salame e a bere albana. E Ludi poi se lo porta anche a casa sua a mangiare, e ci incontriamo nel pomeriggio, in giardino da Ludi, che aveva quel registratore con tutte le canzoni che ci piacevano allora, e c'era Brel, c'era Brassens, c'era Amodei, e qualcuna delle mie d'allora, tipo Le belle domeniche.
Palo Alto per ascoltare ascoltava, anche le nostre traduzioni, ma credo che non capisse bene queste cose, o che non gli importassero molto, perchè poi gli americani sono così, se le cose non le hanno fatte loro, o non è arte del rinascimento, non è che gli interessino particolarmente. Folklore pataccaro, monumenti, e via andare, i ragazzi. E fa: "Conoscete Dylan ?" "Certo" dico "Dylan Thomas". E lui fa "No, no, Bob Dylan! Oh me, he's great!".
Bob Dylan è, per me, quel ragazzino americano, amico di mio fratello ma un poco più vecchio di lui, a Bologna con quella sua strana madre e un numero incredibile di fratelli più piccoli (come solo riescono ad averne gli americani) e questa sua strana madre a Bologna per un anno a scrivere un libro di cucina, o di viaggi, o qualcosa del genere. Venne un giorno a casa mia con dei dischi finalmente DISCHI, di Dylan e Guthrie. E soprattutto c'era quel meraviglioso Freewheelin", con Don 't think twice, e Blowin' in the wind e Hard rain's, e i Talkin'blues di Dylan e di Guthrie, e io là ad ascoltarli per pomeriggi e a cercare di capire le parole, con gli amici di allora, poi a cercare di ripeterle, e a tradurle, e a buttare quei giri nuovi d'accordi sulla chitarra e in poco meno di tre mesi vennero fuori Auschwitz e Noi non ci saremo e È dall'amore che nasce l'uomo. L'idea di Noi non ci saremo poi stranamente uscita da una mia strana interpretazione di Mr. Tambourine man.
Bob Dylan è per me il primo folk-studio bolognese , le nostre idee di allora, le nostre discussioni di politica e di musica, e il viaggio ad Amsterdam, coi primi soldi delle prime canzoni uscite. Ad Amsterdam era tempo di provos e io e Claudio con le nostre chitarre a cercarli, lungo i canali e negli scantinati; i provinciali che non capivano bene la situazione, un po' sospettosi, un po' curiosi, noi ancora coi capelli corti, arrivati là quando il movimento stava già morendo.
E quella marcia per il Vietnam, in centro ad Amsterdam, e io che cantavo Masters or war e stranamente l'uomo della TV olandese venne a intervistare proprio me, forse si vedeva che ero straniero, e disse, perchè questo, perchè queste canzoni, e io a spiegare perchè e cos'erano quelle canzoni, e cosa rappresentavano.
Ci si credeva, voglio dire: "I tempi cambiano, i tempi stanno cambiando" e in un certo senso era anche vero.
Anche il nonno di quella ragazza, Nike, se ne stette tutta una mattina ad ascoltare quelle canzoni, le mie e quelle di Dylan, con attenta pazienza, perchè la nipote gli aveva detto "Ascoltale, sono nuove, sono importanti" e lui, il vecchio famoso architetto, in quella buffa casa piena di strani oggetti e disegni e sculture e foto, si emozionò, si esaltò, forse un po' gigionesco, dicendo cose tipo io credo ai giovani, mi piacciono, sorgono sempre, stanno ribellandosi, stanno arrivando, portando nuove forze, come i popoli del terzo mondo. Non tutto vero, forse retorico, ma allora era bello, come, nella confusione di allora, cantare Dylan, di sera, dentro le facoltà occupate, quelle prime volte.
Bob Dylan è, per me, il '68-'69, l'arrivo a Bologna di Debby (nota di Napoleon: Deborah Kooperman, musicista americana amica di Guccini. Ha suonato in molti suoi pezzi) e di quel gruppo d'americani miei allievi coi quali si era sempre assieme.
Forse gli ultimi anni interessanti di questi ultimi anni. E vuol dire Gandolfi, l'osteria fuori porta d'Azeglio, prima che diventasse un posto importante, di moda; solo noi e i vecchi, prima, poi tutta la gente che ci seguiva il giovedì sera, e poi anche le altre sere.
C'era anche Alex, greco, e tutti i suoi amici, Janis che ballava, e il vecchio Bergamini con la fisarmonica, a cantare mezzo francese e mezzo italiano, lui che aveva portato dalle "mine" quello strumento e la silicosi. E infatti due anni dopo, quando il Moretto che aveva preso il locale me lo fece rivedere, ed erano due anni che non ci entravo, di proposito, e anche allora non sapevo che sarebbe diventato un posto importante, vidi su un mobile, fra la polvere e la confusione lasciata dagli imbianchini la fisarmonica di Bergamini.
E il Moretto mi fa "Sai, l'ha lasciata qui, poi è morto, e nessuno l'è venuta a riprendere" e fu un colpo davvero, e scrissi quella canzone Le osterie di fuori porta anche per lui, per Bergamini, e non solo per quello che noi eravamo allora.
Che a raccontarlo così fa un po' cineromanzo, ma a farle, le cose, è differente.
E c'era Lynn, la strana Lynn che cantava assieme a me Mr. Tambourine man, ubriaca di vino da 250 lire la bottiglia, allora, e crollava sotto ai tavoli ridendo e piangendo; e c'era Frascari, un vecchio contadino che ci portava a casa sua alle tre di notte, quando Gandolfi chiudeva, e tirava fuori vino e salame e pane e ciccioli, e faceva friggere la salsiccia alla moglie che si alzava e ci guardava sbalordita, e noi ancora a cantare, sotto gli occhi stupiti delle figlie che dovevano andare a lavorare.
Chissà se a Dylan fischiavano le orecchie, in quei momenti? Certo, la situazione, non se la poteva immaginare, noi là, americani greci e italiani, sulle colline di Bologna, a urlare it ain't no use to sit and wonder why, baby fin quando Frascari andava a mungere e noi voltavamo le macchine verso Bologna.
Ma già tutto sapeva di qualcosa che stava per finire, o che doveva finire, anche se forse non ce ne accorgevamo; eravamo felici, andava bene, e non guardi mai molto avanti, in quei momenti.
Ma non ritrovai Dylan l'anno dopo, in America, e non c'erano le cose che avevo pensato di vedere e di trovare.
Già Dylan, per dire solo lui, era come invecchiato, e non lo si cantava più. Farlo, sembrava di ripetere qualcosa di già conosciuto.
C'erano altri nomi; lui, chissà dov'era, era già passato; di presente c'era la malinconia e la voglia di tornare a casa per vedere se era possibile ripetere quelle cose che non si possono ripetere. Al massimo, si fanno diverse, con altra gente e in altri posti. Le cose finiscono e i miti passano, restano i ricordi. E anche Dylan, in un certo senso, era scomparso.
Ma Dylan è stato per me quello strano personaggio di un film, Pat Garret quando lui, proprio lui, così piccolo (e Debby, che l'aveva conosciuto e ci aveva suonato assieme, a New York, me lo aveva detto, che era piccolo) quando lui dicevo esce fuori da quella porta e il tizio gli fa: "come ti chiami" o "e tu chi sei?" qualcosa così non ricordo bene. E lui sta un attimo zitto, e poi risponde: "Che domande". E quella strizzata d'occhio, fatta a quelli che l'hanno capita, mi è piaciuta, e mi ha ricordato tutte le cose che erano state e che avevamo fatto, assieme a lui; e forse più grandi di lui (Francesco Guccini).
IVAN
DELLA MEA
da “Francesco e
Giovanna, che bel fischio!” di Ivan Della Mea – L'UNITA' del 9.12.02
Il principe Francesco mi disse: “Facciamo qualcosa insieme Ivan, in fondo siamo nella stessa barca”.
“Non siamo nella stessa barca” gli risposi.
“Allora siamo nello stesso mare” disse il principe Francesco sorridendo.
Mi dava fastidio che fosse così alto e magro e sorridente e disponibile.
“Non siamo nella stessa barca – ribadii – e neanche nello stesso mare e a ben vedere neanche nello stesso pianeta”.
Il principe Francesco mi lasciò perdere.
Giancarlo Cesaroni, anima del posto, suonò la campanella.
Io iniziai il secondo tempo del mio recital al Folkstudio di Roma, in Via Sacchi. Correva l'anno...farebbero meglio a stare fermi gli anni.
Ho sempre pensato che in quelle mie risposte ci fosse più invidia che sinistra coerenza di un sinistro di sinistra; ho anche pensato, poi, che fossero un po' sciocche e questo non perché, negandomi, mi fossi giocato Dio sa quale occasione, ma perché la storia di Francesco De Gregori, per quel che ne sapevo, mi diceva di ascoltarlo: epperò era quella una stagione, a mio avviso, in cui lui era tutto un po' troppo bravo, un po' troppo giusto, giusto in tutti i sensi, e io un po' troppo sbagliato in quasi tutti e lui tirava fuori una canzone dopo l'altra e tutte piuttosto belle alcune anche troppo come la donna cannone e titanic e viva l'Italia sempre alla grande, canzoni sciorinate all'aria come le lenzuola bianche stese di Ordet di Dreyer, canzoni che hanno tutti gli orizzonti, i quattro compresi che. Per dirla con George Brassens, crocifiggono il mondo.
DARIO
SALVATORI
da "Le
risposte nel vento in formato poster" di Dario Salvatori - (Ed. Ottaviano)
- 1980
C'è un episodio nella carriera artistica di Bob Dylan che rischia di diventare mitico, almeno per l'ltalia. Nel 1961, più per puntiglio verso la sua girl-friend che lo aveva abbandonato che per altro, Dylan venne in Italia, o meglio "in
Europa", come dicono gli americani. La sua ragazza era a Perugia e lui ne approfittò per visitare Roma e Londra.
A Roma alcuni amici musicisti, chissà perchè, lo portarono al Folkstudio, un piccolo locale di Trastevere che già da due anni ospitava nuovi talenti, italiani e stranieri, in fatto di folk, jazz e canzone politica (nota di Napoleon: da cui uscirono tra l'altro De Gregori, Venditti, Lo Casciulli, Bassignano, De Angelis etc).
In America aveva appena inciso il suo primo long playing per la Cbs, sotto l'attenta produzione di John Hammond, un disco che conteneva anche dei pezzi suoi ma che in ultima analisi sentiva fortissima l'influenza di Woody Guthrie, Hudie Ledbetter, Sonny Terry e Cisco Houston. In Italia ovviamente era
pressochè sconosciuto. AI Folkstudio fece un"'ospitata", visto che la serata non era sua, qualche pezzo e via. La cosa finì lì.
In prospettiva il fatto divenne storico. E c'è da giurare che lo diventerà ogni anno di più. A determinare l'importanza dell'episodio concorsero vari fatti. Innanzitutto la popolarità di Dylan. In secondo luogo l'intensa vita artistica del Folkstudio, ormai ventennale (del resto la lista dei personaggi illustri passati sul
palco del piccolo locale di Trastevere come sconosciuti sarebbe lunghissima ), e non ultimo il fatto che Dylan in Italia, come performer ufficiale non ci è mai venuto.
Un fatto importante dunque, ma anche singolarmente curioso.
Giancarlo Cesaroni del Folkstudio assicura che quella sera in sala, mentre si esibiva quel ventunenne sconosciuto, non c'erano più di quindici persone. Eppure ci sono in giro centinaia di persone che giurano di esser state presenti a quell'avvenimento eccezionale. Sono quasi tutti degli addetti ai lavori del settore musicale. Ma c'è di più. Nel 1962 il Folkstudio era nella sua antica sede di Via Garibaldi e non ancora in Via Sacchi, sempre a Trastevere, dove sarebbe arrivato solo molti anni più tardi.
Naturalmente questi bugiardi delle sette note assicurano di averlo ascoltato in Via Sacchi, segno che non si sono presi neppure la briga di farsi i conti un po' più esattamente.
Insomma sono anni che sentiamo raccontare in radio, in televisione o sui giornali questa panzana all'insegna del "c'ero anch'io".
È vero che il rock è giovane e ha bisogno della sua storia, e quindi dei suoi storiografi, ma le bugie si possono anche lasciare a casa.
Tutto questo per cogliere più da vicino, se possibile, il fenomeno Dylan in Italia, visto che del resto, cioè del Dylan artista internazionale, non mancano certo altrettanti episodi, anzi abbondano libri, volumi, biografie, discografie,monografie, in italiano e in inglese, per non parlare naturalmente del materiale ufficiale, cioè dei film e soprattutto dei dischi.
Bob Dylan è l'unico grande degli Anni Sessanta (gli altri sono i Beatles e i Rolling Stones) a non aver mai messo piede in Italia.
Beatles e Stones lo fecero al momento giusto, quando la loro popolarità era al vertice, lui no, anche perchè ha avuto una storia diversa e probabilmente avrebbe più successo ora un suo concerto in Italia che non tredici anni fa.
Dipende dalla maggior specializzazione musicale del pubblico giovane, dalla
conoscenza dei suoi testi, dai motivi di studio delle sue canzoni.
In Italia Dylan è sempre stato un fenomeno d'importazione, complici i testi, "internazionali" ma certo scarsamente traducibili (ma è stato fatto anche questo).
Dylan è l'artista e il biografo dell' Altra America, quella delle marce per l'integrazione nel Sud agli inizi degli Anni Sessanta; l'America del Village, quella di Chicago e di Jerry Rubin; quella di Kent State, quella di milioni di
dimostrazioni contro il Vietnam; quella che giunta alla soglia degli Anni Settanta si è un po' arrestata senza sapere più dove andare.
Quella, insomma, di Bob Dylan.
Ma tutte queste valutazioni, peraltro fondamentali, dovettero essere mediate per arrivare in Italia, almeno a livello fenomenologico.
L 'errore fu probabilmente dell'industria discografica. La casa discografica che quindici anni fa iniziò a distribuire i dischi di Dylan sul nostro mercato non sapeva che pesci pigliare.
Quando arrivò Like a rolling stone il problema era se metterlo insieme ai "cantanti americani" o alla "musica beat". Qualcosa di umiliante.
Per fortuna era già molto attiva una certa frangia di critici e traduttori progressisti che si impossessarono felicemente di Dylan. In testa a tutti Fernanda Pivano, che probabilmente fu la prima in Italia, intorno al 1964, a scrivere un articolo su Dylan di una certa consistenza.
Fu questo, probabilmente, il secondo errore.
Si identificò in qualche modo l'opera del musicista sul piano letterario, quasi una sorta di monello della "New Left" americana, che nel frattempo si era fatta troppo seria.
Fatto sta che dovemmo attendere un altro paio d'anni per capire che Bob Dylan era essenzialmente un musicista, e che musicista !
Il merito deve essere attribuito alle trasmissioni radiofoniche (beninteso Rai) di allora, soprattutto Bandiera Gialla, Per voi giovani e Count Down, condotte rispettivamente da Gianni Boncompagni, Renzo Arbore e Giancarlo Guardabassi, nomi che forse faranno sorridere qualcuno ma che all'epoca ebbero una funzione ben precisa.
Ci sono frasi delle sue canzoni che hanno segnato grandi vittorie; grida poi raccolte dal grande coro elettronico di una generazione americana che per la prima volta nella storia, possedendo già tutto, poteva attaccare la qualità della propria vita.
Difficile e impossibile qui elencare il materiale prodotto da Dylan, che fra l'altro il prossimo anno festeggerà i suoi vent'anni con il music business, basterà citare la biografia di Anthony Scaduto, la prima e fino ad oggi di gran lunga
la migliore. Lo stesso Dylan, quando si trovò il libro fra le mani, ebbe a dire: "La cosa strana di questo libro è che mi piace".
Anche nel suo caso, come per i Beatles e i Rolling Stones, esiste tanta e tale letteratura, molte cose eccellenti ed altre stupide, che sarebbe il caso di consigliare ai lettori di passare a quelle, subito dopo aver esaurito i dischi.
A guardare la sua ventennale carriera si scopre che Dylan non si è troppo spremuto, a differenza di Beatles e Stones, che negli anni di maggior successo sono arrivati anche a suonare oltre trecento sere l'anno, è sempre stato parsimonioso, sia in fatto di tournees che per ciò che concerne i dischi; tutto ciò gli ha permesso di arrivare alla soglia dei quarant'anni piuttosto gasato, con una voglia di fare a dir poco sorprendente.
Organizza tournees, chiama con sè vecchi collaboratori, incide dischi dal vivo, si sbatte come un matto per trovare il denaro per - finanziare le sue follie cinematografiche. Ma non basta. Intreccia un flirt dopo l'altro, torna a rifare il cascamorto con la sua vecchia fiamma Joan Baez all'interno della Rolling Thunder Revue (pare che sia stato questo il definitivo motivo della rottura con sua moglie). Si direbbe instancabile.
Forse, insieme a Cassius Clay, è l'unica star degli Anni Sessanta ad essere sopravvissuta. O almeno in grado di affrontare il futuro a testa alta.
Gran parte dei miti di allora sono spariti, inghiottiti più che altro dalle loro stesse gesta, da una sciocca politica culturale, peraltro non sempre presente. Diciamo allora che Dylan si è mostrato in grado di saper invecchiare; per una
star carismatica della sua portata non è cosa da poco. I Beatles per farlo si sono dovuti dividere.
Il tempismo di Dylan è stato proverbiale.
Almeno una volta l'anno Dylan ebbe modo di compiere un'azione che in seguito si sarebbe rivelata di fondamentale importanza.
Nel 1963 cancellò una sua apparizione al popolarissimo Ed Sullivan Show perchè la televisione gli censurò una canzone di protesta;
nel 1964 adottò la chitarra elettrica fra le proteste dei fans del folk (l'anno dopo la scena si sarebbe ripetuta con maggior enfasi al Festival di Newport); nel 1966 il famoso incidente motociclistico, quasi mortale, che gli impedirà di lavorare per due anni e dal quale uscirà completamente trasformato nel 1968,
anno in cui terrà uno storico concerto alla Carnegie Hall.
L 'anno della sua rinascita è sicuramente il 1969. Nel mese di agosto compare al Festival di Wight.
E' il suo grande ritorno, la prima apparizione in pubblico di un certo peso dopo l'incidente.
Ormai è ricco e la sua partecipazione costa cara: 35.000 sterline più una percentuale sugli incassi (oltre 300.000 sterline). Da allora il suo ritorno è stato lento ma progressivo: come artista ha voglia di tornare sul palco, sente
soprattutto la mancanza del pubblico. Ad ogni esibizione, per ogni concerto è pronta una nuova polemica, un piccolo sussulto, qualcosa che non funziona. Si torna a parlare di vecchie questioni, cercando di stabilire se il suo sia stato più o meno un tradimento e in che misura sia possibile parlare ancora oggi di Dylan come di un artista giovane.
Le polemiche non sono ancora cessate. Anzi, si rinnovano in continuazione, ma con una povertà di argomenti desolante. L 'ultimo tour mondiale di Dylan ha messo nuovamente in risalto la sua statura di artista. Al di là delle polemiche, dei sopraggiunti quarant'anni, della ricchezza, della sua vigliaccheria, dell'avarizia, del menefreghismo nei confronti del prossimo, c'è da star certi che sentiremo parlare di lui per molti anni ancora.
GIOVANNA
MARINI
Giovanna Marini è musicista. Giovanna Marini è cantante politica. Giovanna Marini è, infine, ricercatrice. Ma in ognuna di queste definizioni il ruolo di Giovanna Marini è affatto particolare. E ciò che sovraintende a questa particolarità è la reinvenzione del tutto originale di questi ruoli ormai ‘normalizzati’ nella cultura degli anni ‘60-’70. Il musicista è infatti quello chiuso nei suoi conservatori e nelle sue sale da concerto, quello di cui si occupa la critica ufficiale, quello che viene da Darmstadt o magari addirittura dagli Stati Uniti. Oppure è lo strimpellatore di chitarra d’accompagnamento, o il pianista da piano-bar, il musicista per poesia, potremmo definirlo. Il cantante politico è l’anonimo (o gli anonimi) espresso dalle lotte delle masse. Oppure è il generoso divulgatore di slogan in do/sol 7. Il ricercatore è il geloso maniaco del magnetofono, il professore universitario con giuste ambizioni filologiche. Oppure il furbo saccheggiatore di musiche popolari per americani in cerca di emozioni esotiche. La Marini è invece musicista nel senso che ogni sua ballata riecheggia in continuo una consuetudine non episodica con la musica colta’ del passato, e soprattutto quella grande stagione della musica italiana che va da Palestrina a Monteverdi. Ma mai per riferimenti sicuri; piuttosto, vorremmo dire, per aver assorbito, quasi senza avvedersene, questa musica. E per essere, nel comporre, sempre attenta alla costruzione, alla melodia come all’armonia, come (segno di indubbia cultura musicale) al timbro e al ritmo. Il procedere delle sue ballate lunghe è continuamente spezzato senza però che l’unità venga meno: le ballate della Marini (anche quelle semplici per voce e chitarra) non sono una sequela di tanti brani, ma nemmeno l’alternarsi banale di strofa-ritornello-strofa tanto caro alla canzonetta in serie. Sono invece un continuo nascere di idee armonico-melodiche che si incastrano le une sulle altre senza stanchezza. E l’uso della voce, infine. La Marini anche in questo si dimostra musicista: la voce (e la sua voce, poi, splendidamente modulante dal contralto al soprano) è uno strumento; i testi sono importanti, ma importante è anche il loro veicolo, un veicolo appunto tutto musicale. E dunque la voce canta spiegata, urla, parla metricamente, parla normalmente e, infine, ‘svola’. Ma sullo svolo torneremo. La Marini è cantante politica. E, anche in questo caso, la sua musica non è un accompagnamento di slogan, non fornisce una visione piatta e generica, o trionfalista e retorica, delle lotte, della società, della battaglia socialista. E, invece, all’interno di una battaglia politico-culturale decisamente orientata, piena di contraddizioni, di slanci, di analisi più che di sintesi, di mediazione più che di registrazione, di riflessione più che di semplice testimonianza o colonna sonora delle lotte. La canzone politica di Giovanna Marini è, nel bene e nel male, assolutamente inimitabile: è la commistione di impegno politico, ironia dell’intelligenza, raffinata cultura musicale. Nel bene e nel male perchè non si vuole con questo dare un giudizio nel merito della produzione della Marini, ma evidenziarne l’originalità e intelligenza del metodo. E infine ricercatrice. Ma anche qui a modo suo. La Marini più che ricercare per ricercare o per ricreare, ricerca per radicarsi da qualche parte: tutto quello che sente, che capisce, che chiede e le viene risposto, dove ancora si fa musica popolare, è vano ricercarlo nelle sue composizioni, è facile invece trovarlo come substrato culturale in tutta la sua produzione. Nè il mestiere di ricercatrice le impedisce, spesso, con la solita ironia dell’intelligenza, di inventare veri e propri moduli popolari. Tale è il caso dello ‘svolo’. Nella canzone popolare del Povero Antonuccio, nel finale, mentre un altro cantante continua la melodia normale, la Marini improvvisa un lamento, svisando con la voce (svolando, appunto) quasi a imitare il pianto lamentoso delle prefiche. La teoria dello svolo è, in realtà, un’invenzione della Marini stessa. Il che non le impedisce, peraltro, di usare lo stesso procedimento nella canzone su Pasolini (Persi le forze mie, persi l’ingegno). Ma l’invenzione di canzoni o moduli popolari è nella Marini qualcosa di diverso dal divertissement, dall’operazione snobistica dell’intellettuale sulla ‘cultura inferiore’. È invece dimostrazione di quanto attuale e presente possa essere ancora la musica ‘altra’, contrariamente a quanto sostengono coloro che la vogliono morta per averne, sotto vetro, le spoglie imbalsamate. E inoltre, in Giovanna Marini, è prova di una convinzione teorica profonda: che non esistono forme musicali ‘altre’ che nascano dal nulla e che sarebbe, contemporaneamente, delittuoso affidare al ‘già detto musicale’ la veicolazione di messaggi nuovi. In questo senso i pastiches di Giovanna Marini sono compenetrazioni di stili i più vari che, variamente accostati, amalgamati e rivisitati, tendono a dare un messaggio univoco, non subordinato alla povertà strumentale nè a quella testuale, ma anzi in grado di valersi della ricchezza sia testuale che strumentale, sia armonica che ritmica, per dare non già autorità ma pienezza culturale al messaggio. Nella Marini non è difficile rintracciare “in riassunto liberamente rivisitato”: il madrigale di Marenzio, la canzone profana medievale, la musica strumentale barocca, l’opera italiana, il valzer viennese, la modalità contadina dell’italia meridionale, e si potrebbe continuare (persino il cromatismo wagneriano potrebbe entrarci). Il tutto fuso e variamente emergente (e a volte assente, beninteso) a fornire saldezza musicale: tanto che, qualcuno potrebbe obiettare, la musica della Marini rischia di esulare dalla canzone politica così come oggi la intendiamo. Ma sarebbe, ci pare, assai riduttivo porre in questi termini la questione. Sarebbe come affermare che la canzone politica ha, come dato distintivo, la rozzezza musicale. Contio questa teoria basterebbe, crediamo, la sola Reggio Calabria, in cui il tessuto musicale fa da sostegno (quasi inosservato, separato dal testo) a parole di inequivocabile politicità, con un risultato finale di grande ‘emozione’. Nè del resto siamo d’accordo con Piero Nissim quando sostiene che l’unica canzone politica esistente è quella legata strettissimamente alla lotta e cantabile da tutti: quella infatti è, più propriamente, un aspetto (fondamentale) della cultura operaia oggi, è una questione di ricerca urbana, accanto alla quale però esiste un livello di riflessione (i termini “più giusta”, “meno giusta” non hanno significato) e di elaborazione più articolata che richiede, di necessità, l’intervento dell’intellettuale. Questo compito di riflessione lo svolge, oggi, Giovanna Marini assieme ad altri: è un compito di intelligente ricerca e di intelligente creazione, di impegno politico e culturale.
Flash n . 1 - da
“Folkstudio story” di Dario Salvatori
Fu Sally, una giovane israeliana in perpetuo viaggio verso Israele, non so se ci sia mai arrivata, a dire al giovane inglese: "Roger, forse si stanno annoiando, . . . Roger . . non sta andando .tanto bene. Non mi sembrano contenti. . ." e poi fu la rissa. Eravamo in un'osterla di Rorna con chitarre e mandolini. Trastevere, di venti anni fa. C'erano Roger, Sally, Harold e altri amici, forse c'era anche Cesaroni ma io ricordo Sally perchè aveva un dito di meno e suonava la chìtarra e Roger perchè era sicuro che ai trasteverini la nostra musica sarebbe piaciuta tanto. Non piacque affatto. Anzi, stavano per rovesciarci addosso le tavole con vino, pizze e tutto all'ennesima canzone gallese di Roger, all'ennesimo canto provenzale mio e all'ultima nenia ebraica di Sally. Harold non cantò, ma lui si distinse subito per un fiuto straordinario. All'ultimo momento una donna enorme si alza in piedi e dice "lassateli perde", dice soltanto, ma con la voce fa tremare i vetri. Tutti si calmano, lei ha dei gioielli grossi come le dita e si mette a cantare. Non avevo mai sentito una cosa simile.
Harold mi sussurra "ci vuole un localetto nostro, come questa osteria, per cantare, e magari far pure pagare qualcosa, qua no, questi ci ammazzano". E si aprì il Folkstudio. Dopo quattro anni al Folkstudio non ci sono andata più, ma quando ritornai lo trovai fiorente. Pieno di ragazzi che urlavano che volevano canzoni politiche. Harold tuonava spirituals di liberazione (ve l'avevo detto che aveva un gran fiuto?) Cesaroni sembrava di passaggio, in realtà lo gestiva lui, ma questo è il suo stile. Benito preparava il popcorn e Maureen con Roger cantavano l'Irlanda. Andammo pure a Verona, in qualità di Folkstudio Singers. Mario Schiano anche lui sempre sulla porta, la provvisorietà fatta istituzione. In realtà, a vederla all'indietro, lì si è fatta cultura. Ogni fermento, ogni spinta, si registrava automaticamente al Folkstudio. Nel sessantotto ci cantava Pino Masi, nel settantadue De Gregori; e ancora oggi, chi si cimenta in un pezzo nuovo, dìfficile, e vuole farlo tra gente che possa capire, va al Folkstudio.
lo credo che la pacifica gestione animata proprio solo dall'amore di non buttare via i patrimoni, la nostra memoria storica, che ha sempre caratterizzato il modo di agire di Cesaroni, sia stata la salvezza del Folkstudio. E questo dimostra che senza obbiettivi spericolati, ma con grande consapevolezza che un luogo per esprimersi liberamente è sempre più prezioso, unita al voler conservare a tutti i costi la propria memoria, si compie un atto di profonda cultura. lo penso proprio questo, e perciò desidero che il Folkstudio non chiuda mai, soprattutto che non esca dalle mani di Cesaroni, perchè è difficile adesso saper tenere insieme un luogo dove fare cultura e la gente. C'è per ora un perfetto entrare e uscire dal pubblico al privato e viceversa nel rapporti con il Folkstudio che potrebbe perdersi e che invece è anch'esso prezioso come ultima testimonianza di un modo di essere che oggi, fra la paura di cadere nelle trappole delle etichette di moda, e la paura di non essere abbastanza chiari, si va perdendo.
Non a caso oggi canta al Folkstudio il Cantinpiazza, un gruppo nuovo, alla sua prima esperienza, e non a caso ci ha da poco cantato Pietrangeli, dopo tredici anni di attività nella canzone politica, in un suo ritorno al pubblico romano.
Vorrei che nel marasma generale questo luogo restasse aperto com'è sempre stato, un gran raccoglitore di persone, voci, esperienze, racconti vivi, in libertà, senza mediazioni. (Giovanna Marini)
PAOLO
PIETRANGELI
Nato a Roma nel 1945, figlio del regista cinematografico Antonio, laureato in filosofia, è venuto in contatto con il Nuovo Canzoniere italiano nel 1966. Aveva da poco scritto Contessa, in occasione della prima occupazione dell'Università, in seguito all'assassinio dello studente Paolo Rossi da parte dei fascisti, che rimarrà la sua canzone più nota e che divenne la canzone delle lotte studentesche degli anni 1968-1969. Dopo gli entusiasmi, anche le ingenuità di quegli anni, Pietrangeli, finì per assorbire il riflusso postsessantottesco con relativo corredo di frustrazioni e disillusioni: i suoi dischi stemperano gli impeti per una descrizione delle contraddizioni quotidiane piena di sfumature, dove hanno un posto maggiore il " personale ", la caricatura, la satira impietosa. Il suo discorso diventa più omogeneo, non "popolare" certo come linguaggio (le sue canzoni, tranne alcune eccezioni, non si prestano a essere cantate in coro e a essere facilmente memorizzate), ma in grado comunque di esprimere sentimenti "collettivi ", se si pensa al pubblico cui si rivolgeva per affinità: le masse studentesche e i nuovi ceti medi politicizzati. Negli anni '70 da ricordare anche il suo impegno come regista con opere abbastanza diverse fra di loro: un film-documentario sul fascismo vecchio e nuovo, "Bianco e nero" (1975), un altro sulle inquietudini sessual-esistenziali dei giovani: "Porci con le ali" (1977), infine "I giorni cantati" (1979).
IL
NUOVO CANZONIERE ITALIANO
Il nome, proposto da Roberto Leydi nel 1962 (ispirato a una vecchia raccolta di Pietro Gori), fu assunto dal gruppo di cantanti e operatori che già operavano nell’ambito delle allora Edizioni Avanti!, poi divenute Edizioni del Gallo e infine Edizioni Bella ciao. Attorno alle figure di Gianni Bosio e di Roberto Leydi si raccolsero allora un po’ tutti i protagonisti del folk revival italiano, o per lo meno quelli operanti nel Settentrione. Alcuni nomi: Sandra Mantovani, Michele L. Straniero, Fausto Amodei, Sergio Liberovici, Tullio Savi, Ivan Della Mea, Giovanna Daffini. Organo del gruppo divenne la rivista omonima, mentre intanto si andava sviluppando l’attività di edizioni librarie e soprattutto discografiche (sotto l’etichetta « I dischi del sole »), ma di eccezionale importanza fu l’attività di concerti e spettacoli che portò finalmente ad ampia notorietà buona parte del ricco patrimonio canoro sociale tradizionale che veniva intanto ritrovato nell’attività di ricerca che corse sempre parallela alle altre attività del gruppo. Il primo spettacolo proposto dal Nuovo canzoniere italiano, fu rappresentato all’Umanitaria di Milano nel 1962 ed ebbe come titolo «L’altra Italia, canti del popolo italiano» (curato da Roberto Leydi e Tullio Savi) in cui cantarono Fausto Amodei, Sandra Mantovani, Michele L. Straniero. L’anno dopo, alla Casa della cultura di Milano verrà presentato un ciclo di spettacoli articolato in nove serate e che avrà titolo « L’altra Italia, prima rassegna della canzone popolare vecchia e nuova », cui aderirono numerosi personaggi del mondo culturale milanese e lombardo. Nel 1964 a Padova ebbe luogo l’anteprima dello spettacolo «Pietà l’è morta, la Resistenza nelle canzoni» e, nel giugno di quello stesso anno, nell’ambito del Festival di Spoleto, c’è la prima di «Bella ciao» che susciterà poi tanto scandalo. Nel 1966 viene presentato lo spettacolo «Ci ragiono e canto», che contribuirà ad acuire certe polemiche, che già comunque avevano avuto inizio l’anno precedente e che porteranno al distacco dal Nuovo canzoniere di Leydi, Sandra Mantovani, Bruno Pianta, Hana Roth, Matteo Deichmann. Nel 1967 esce il primo numero del bollettino « Linea rossa », sempre quell’anno viene fondata la Lega di cultura di Piadena, cui segue di un anno la nascita della Lega culturale di Aquanegra sul Chiese. Intanto matura anche il distacco dal gruppo di Nanni Ricordi. Nel 1973 nasce a Roma il circolo Gianni Bosio, sezione romana del Nuovo canzoniere italiano, e l’anno dopo viene organizzato un seminario sul tema «L’altra cultura. Interventi, ricerche, documenti sulla presenza alternativa della cultura popolare e proletaria». Tra i gruppi che in qualche modo si ricollegano alle attività del Nuovo canzoniere italiano vale la pena di ricordare i circoli Gianni Bosio di Roma, Torino, Chieti, Modena e di altre città, il Collettivo di lavoro G. Daffini di Reggio Emilia, le leghe di Piadena e di Acquanegra, il Nuovo canzoniere veneto, la Colonia Cecilia, il Canzoniere popolare di Bergamo, il Canzoniere grecanico - salentino di Lecce, il Gruppo operaio ‘E Zezi di Pomigliano D’Arco e altri ancora. Tra i musicisti e cantanti che agirono sotto l’etichetta del Nuovo canzoniere, da ricordare Giovanna Marini, Ivan Della Mea, Paolo Pietrangeli, Paolo e Alberto Ciarchi, Renato Rivolta, Fausto Amodei, Gualtiero Bertelli, Alfredo Bandelli.
MATTEO
SALVATORE
Autore ed esecutore nato ad Apricena (Foggia) nel 1923. Il padre, Lazzaro, manovale e militante comunista, fu più volte arrestato durante il fascismo. Salvatore apprese a suonare da un vecchio suonatore di violino cieco, Vincenzo Pizzicoli, che egli iniziò a frequentare dall’età di sette anni e con il quale faceva le serenate alle belle di paese per conto dei loro innamorati, e dal quale apprese circa 130 canzoni. All’età di venti anni si trasferì a Roma e iniziò a cantare nelle trattorie per fare qualche soldo, finché fu «scoperto» da Maurizio Corgnati che lo introdusse in un giro della buona borghesia di cui egli allietava le feste. In seguito poté incidere alcuni dischi sia di canzoni popolari sia di sue composizioni, queste ultime sparse in una miriade di 45 giri di livello assai ineguale. Nel 1973, in seguito all’uccisione della sua convivente Adriana Doriani, ha dovuto scontare una pena detentiva. Liberato nel 1978, ha ripreso l’attività concertistica. Rimangono ancora oggi la sua straordinaria voce acuta e le canzoni che l'hanno trasformato in un simbolo del canto ribelle del canto ribelle del Meridione.
GRUPPO
PADANO DI PIADENA
Il gruppo nasce nel 1962 e da allora ha subito numerose modificazioni dell’organico, allineando di volta in volta Bruno Fontanella, Delio Chittò, Amedeo Merli, Sergio Lodi, Policarpo Lanzi, Adolfo Nolli, Ortis Robusti. Amedeo Merli e Delio Chittò hanno formato nel 1967 il Duo di Piadena. In gran parte operai, non tutti sono di Piadena (Cremona). Le prime esecuzioni in pubblico risalgono al 1963; in seguito presero parte, nell’ambito delle attività del Nuovo canzoniere italiano, alla rassegna «L’altra Italia» alla Casa della cultura a Milano, agli spettacoli «Bella ciao», «Ci ragiono e canto» e al primo Folk festival di Torino. Il Duo di Piadena, che si è staccato dal Nuovo canzoniere italiano, ha preso parte, fra l’altro alla ripresa televisiva di
«Ci ragiono e canto». Importante è anche il lavoro di ricerca e di razionalizzazione della cultura popolare iniziato con Gianni Bosio in cui si sono impegnati i componenti del gruppo, lavoro che ha portato, tra l’altro, alla pubblicazione di due fascicoli ciclostilati contenenti i testi e le musiche di due importanti repertori di canti di risaia: quello delle mondine di Castelnuovo Gherardi e quello delle mondine di Villa Garibaldi. Il Gruppo padano di Piadena ha rappresentato una delle esperienze più avanzate di riproposta di canti popolari e di elaborazione di nuove canzoni politiche (tra cui ricordiamo
«La Santa Caterina dei pastai», «Il padrone socialista» e «Sciopero!»). La scelta di campo operata dal Duo di Piadena è diversa: abbandonata la strada della ricerca sul campo e del vivere dall’interno la condizione operaia e contadina, essi si sono proposti come cantanti semiprofessionisti che, sebbene a livelli comunque dignitosi, hanno cercato di raggiungere un pubblico più vasto, incidendo numerosi dischi dal valore alquanto discontinuo.
EDOARDO
DE ANGELIS
Storico punto di riferimento per i cantautori della "scuola romana", De Angelis ha contribuito, dal Folkstudio (1970) ad oggi, allo sviluppo e all'immagine della canzone d'autore italiana. Ha realizzato quattro album con la Schola Cantorum, e nove come solista. In qualità di esperto di musica italiana e canzone d'autore è stato più volte chiamato a tenere rubriche giornalistiche specializzate, è stato titolare di una serie radiofonica sulla storia della canzone d'autore e di interventi e interviste radiotelevisive. Ha gestito uno spazio dedicato alla musica italiana in “Music Mag”, settimanale musicale della TV svizzera. Ha pubblicato un libro, “Scrivere canzoni”, destinato ai giovani che vogliono avvicinarsi al mondo della musica. E' stato produttore di Francesco De Gregori e di Sergio Endrigo, ideatore di “Cantare in Italiano”, etichetta discografica associata alla BMG RICORDI, aperta a nuovi talenti della canzone d'autore. E' direttore artistico di “Teatro del Sole”, società che si occupa di produzione e servizi per la musica e lo spettacolo. Negli ultimi anni è stato protagonista di una lunga serie di incontri con i ragazzi delle scuole medie superiori e delle università, in molte città italiane, con la sua iniziativa “Parola di cantautore”, tesa a verificare la qualità del rapporto tra i giovani e la musica italiana. Ha partecipato come responsabile del settore Musica a NET, spettacolo sulle nuove tecnologie della comunicazione, ospitato dalle Scuole Superiori dei principali capoluoghi di provincia italiani. E’ Presidente di “Via del Campo”, Associazione Culturale con la finalità di identificare, riunire, proteggere e promuovere giovani artisti italiani nel campo della musica.
MARIO
SCHIANO
da “Folkstudio
story” di Dario Salvatori
Caro Cesaroni, A proposito dell'annuale vendita del Folkstudio, da molti giorni ricevevo decine di telefonate di persone le piú eterogenee che mi chiedevano notizie sulla messa in vendita del Folkstudio (ma perchè proprio a me?), Quanto costa . . . se si può visitare . . . ci vorrei fare una discoteca ... un pub un ambulatorio per cani, un circolo monarchico….
Mi ricordo anche di una telefonata fattami da uno di quel giovani musici sbocciati al Folkstudio non tanto tempo fa (a duemila lire per sera) e che adesso danno il caviale al gatto di casa: "Si me gira me compro tutto er palazzo. E vabbè.
Oggi, comunque, credo proprio che si sia travalicato ogni limite di tollerabilità.
Indovina un pò chi mi ha telefonato? Lo jettatore, sì, quello con l'ombrello (dovrei nominarlo ma mi fai tenerezza).
"Sono a pochi metri da casa tua, ora ti raggiungo. . ." e mi ha costretto a uscire a precipizio per dirottarlo. L'ho bloccato a via Garibaldi costringendolo a sedere al Bar delle Rose, proprio davanti ai numeri civici 56 e 58, le prime due "sedi" del Folkstudio.
Non l'avessi mai fatto! Ha cominciato con i ricordi e con il racconto dei suoi vani tentativi di acquistare il "Folk” sin dal millenovecentosessanta: Barold Bradley pare che tentasse di metterlo in vendita ogni anno intavolando trattative, però, soltanto con quaccheri e mormoni USA.
“Io ci restavo molto male. . .
"Ma se le trattative non si concludevano mai?"
"MI sentivo escluso e ci restavo male, credimi!"
"Ti credo, ti credo! (Bradley, sparì da Ro- ma e non se ne seppe mai più nulla.)
"Quest'anno, però, spero di farcela, Ma come mai il "nostro Cesaroni si è deciso a vendere?"
Gli ho dovuto spiegare che si tratta di uno ... scherzo che tu fai abitualmente per tener viva la tradizione. C'è rimasto male: quindi, stai attento.
(Per inciso ti domando: come mai la notizia è arrivata fino allo jettatore che, per fortuna, ora abita così lontano da Roma? Di norma la annuale comunicazione della vendita del Folkstudio era stata sempre rigorosamente riservata a quattro o cinque potenziali acquirenti oltre che a pochissimi amici aventi il compito di recítare quotidianamente: 'Peccato, era così bello! E mo' la sera che facciamo?", fino a quando l'ultímo del. . . . "cormpratori", dopo la rituale e concitata trattativa, non veniva messo cortesemente alla porta. Operazione questa seguita da abbondanti libagioni e da un festoso "Arrivederci a Settembre". Ricordi?)
- "Ma sei sicuro che è uno scherzo?!". A questo punto ho dovuto dargli il tuo numero privato di telefono. Arrangiati.
Poi ci siamo alzati ed è accaduto, in queel momento, qualcosa di misterioso e terribile. Si è sentito un sordo boato sotterraneo e il tombino stradale, a due passi solo da noi, ha sussultato sinistramente. Fissando atterrito il mio interlocutore ho fatto un passo indietro toccando le chiavi e farfugliando, tra me, "vade retro, vade retro . .
Il tombino, poi, si è quasi del tutto scoperchiato e dal ventre della terra, oltre ad effluvi nauseabondi, sono venuti su anche labili suoni elettronici distorti.
C'è stato un grande scorrere di gente. Qualcuno, molto bene informato, ha urlato: "E' un fonoevento di Nicolini!". Qualcun altro: “Viva l'estate romana ottanta!". Ho visto il nostro "amico" quasi genuflettersi sul tombino e ripetere più volte, con sorriso estatico: "Questo è il vero underground ..........
Può darsi. Per me è troppo umido e puzzolente. Preferisco il Folkstudio.
Caro Cesaroni, ci rivedremo a settembre. (Mario Schiano)